Dopo la malattia, la voglia di aiutare
I 3 fratelli pakistani che donano anticorpi

Guariti dal Covid, due si sono fatti estrarre plasma per la cura sperimentale del «Papa Giovanni», il terzo è in attesa. Il maggiore: «Ho provato sulla mia pelle e ho detto a Usman e Noman che dovevamo aiutare chi soffre».

«Quando in ospedale stavo male ho fatto una promessa: se esco vivo da qui voglio fare qualcosa per gli altri». Rincorreva i respiri, Zeeshan Azam Butt, 39 anni, operaio pakistano di Stezzano, e ora si trova a rincorrere quella promessa. «Sono guarito dal coronavirus, i due tamponi sono risultati negativi e ho già donato il plasma per l’infusione degli anticorpi ai pazienti Covid gravi», racconta mentre è seduto nella sala d’attesa dell’Unità di Nefrologia e Dialisi dell’ospedale Papa Giovanni, diretta dal professor Piero Luigi Ruggenenti, il medico che ha avuto l’intuizione capace di dare il la a una metodologia sperimentale – l’estrazione degli anticorpi da persone guarite da infondere in quelle malati - che piace anche negli Usa.

Non solo, Zeeshan ha coinvolto gli altri due fratelli in questa guerra a conduzione familiare contro il virus. Noman, 33 anni, operaio nella stessa fabbrica del fratello (la Nts di Lallio), ha donato il plasma ieri mattina: «Mi piace aiutare le persone – dice -. In Pakistan avevo donato 18 sacche di sangue, se qualcuno ha bisogno, non c’è problema per me». Il terzo fratello Usman, 29 anni, dipendente di un autolavaggio, ha già dato l’assenso ed è in attesa di sottoporsi ai tamponi.

Tutti e tre colpiti dal Covid, tutti e tre ristabilitisi, tutti e tre ora sorridenti. Ma non è stato semplicissimo. Soprattutto per Zeeshan che, nei cinque giorni di degenza al “Papa Giovanni”, se l’è vista davvero brutta.

«Mi sono ammalato il 25 febbraio – racconta -, febbre a 39° per tre giorni di fila. Ma pensavo fosse una semplice influenza. Poi ho continuato con la tosse, ma senza grossi problemi. Ma questa “influenza” non mi passava, così il 2 marzo ho preso il saturimetro che usiamo per i problemi di asma di uno dei miei figli e ho misurato la saturazione: 87».

I cinque giorni in ospedale

L’ossigeno nel sangue è sotto il limite, scatta l’allarme. Zeeshan viene portato in pronto soccorso al “Papa Giovanni”. «Mi hanno fatto la radiografia: polmonite interstiziale bilaterale - continua -. Da quel momento ho cominciato a far fatica a respirare. Mi hanno trasferito in terapia intensiva e applicato la maschera per l’ossigeno. Ero a un passo dall’essere intubato».

La mattina successiva lo spostano nel reparto Infettivi e non perché sia fuori pericolo, ma perché i letti in terapia intensiva sono carenti e lui sta meno peggio di altri. È il periodo in cui negli ospedali bergamaschi cominciano i ricoveri di massa, con molti contagiati che addirittura non riescono a trovare un posto e muoiono a casa.

«I primi due giorni sono stati durissimi – confida il 39enne -. In quelle notti ho pensato di non uscire vivo dall’ospedale. Non respiravo, era come essere sott’acqua, era come sentirsi affogare. Spedivo messaggi col telefonino ai miei familiari, dicevo loro di fare beneficenza così chi la riceveva avrebbe pregato per me. Ai miei genitori in Pakistan ho scritto di portare cibo ai poveri. I miei colleghi, il mio direttore Fabio Daminelli e il capo reparto Erik sono stati fantastici, mi tenevano su, incoraggiandomi via Whatsapp».

È al terzo giorno di degenza che Zeeshan decide di dichiarare guerra al virus. «Ho pensato: morirò, va bene, ma non di Covid. Mi toglievo la maschera, giravo per la stanza senza. Ma era dura, pochi attimi e dovevo riattaccarmi all’ossigeno perché mi mancava il fiato. Quando andavo in bagno dovevo fare alla svelta, mi sentivo soffocare». Il quarto giorno il 39enne migliora «grazie anche alle cure e alla forza che mi hanno dato i medici, la mia famiglia, gli amici e i colleghi», il successivo riesce addirittura a passarlo senza maschera per l’ossigeno. Viene infine dimesso.

Anche Noman e Usman nel frattempo si erano ammalati, ma non in modo così grave da finire in ospedale. Zeeshan durante la quarantena in casa medita su come tener fede alla promessa. Intanto prega, «recitavo preghiere, e lo faccio tuttora, per tutti, per l’Italia perché possa sconfiggere questo nemico invisibile». L’occasione gli si presenta il 6 aprile, sotto forma d telefonata. Chiamano dall’Unità di Nefrologia e Dialisi del “Papa Giovanni” chiedendo se è disponibile a donare i suoi anticorpi, che gli verranno estratti con un macchinario usato solitamente per eliminare quelli nocivi per i reni.

«Ho visto la felicità dei medici»

«Non ci ho pensato nemmeno un secondo – confessa lui, che tra l’altro è donatore Avis – e la settimana successiva ho fatto la donazione». «Sono felice ed orgoglioso – ha scritto in una lettera postata sul suo profilo Facebook e pubblicata anche sul sito del Comune di Stezzano – di raccontare il sollievo e la contentezza che ho visto sul viso dei medici quando hanno portato via la mia sacca piena zeppa di anticorpi! Vorrei esortare tutti i guariti come me a donare perché possano dare speranza di salvezza ai malati più gravi».

I primi proseliti li ha fatti in famiglia. «A Noman e Usman ho detto: “Ho vissuto questa situazione, so cosa si prova. Dobbiamo aiutare”. Nemmeno loro ci hanno pensato un attimo in più». E l’altruismo di Zeeshan non si ferma agli anticorpi: la prossima settimana sarà per le vie di Stezzano insieme agli altri volontari Avis a distribuire nelle case le mascherine messe a disposizione dal Comune.

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