«Ho sconfitto la malattia di Moyamoya, ora corro per la vita e per aiutare gli altri»

Valentina Magnabosco Da Zanè a Scanzorosciate, staffetta di 230 chilometri per far conoscere la sua sindrome rara.

Ci sono coraggio e fatica nella corsa. Uno sport fatto di gambe, respiro e resistenza, ma anche di generosità, come racconta Valentina Magnabosco, 41 anni, originaria di Asiago: «Per me questa disciplina è diventata la strada per rinascere dopo aver affrontato la malattia di Moyamoya». Lo ha dimostrato nei giorni scorsi cimentandosi in un’impresa speciale: una staffetta da Zané, in provincia di Vicenza, fino a Scanzorosciate, circa duecentotrenta chilometri, compiuti a fasi alterne sotto il sole, la pioggia e la grandine, con un gruppo di una ventina di atleti dell’Asd Macuri Team di Schio, di cui fa parte da due anni. «Un gesto di ringraziamento e di sensibilizzazione - spiega Valentina, direttore della filiale di Marostica di Banca Intesa -, un atto d’amore e una testimonianza forte, dedicati a chi sta lottando contro la stessa patologia e a chi non c’è più». Moyamoya è una sindrome rara, in cui i vasi sanguigni del cervello appaiono come «nuvole di fumo»: è questo infatti il significato del nome in giapponese.

Ad attendere il gruppo di atleti a Scanzorosciate c’era un festoso comitato di benvenuto capitanato da Giusi Rossi, fondatrice e responsabile dell’Associazione amici di Moyamoya, con tanti volontari, amici e il vicesindaco del paese Paolo Colonna. Nell’ultimo tratto si sono uniti ai corridori anche alcuni giovani dell’atletica U.S. Scanzorosciate. L’arrivo è stato un momento di grande emozione, culminato in un abbraccio commosso tra Giusi e Valentina, in mezzo agli applausi, e la consegna del «testimone», un messaggio di gratitudine per l’associazione e per tutti. «Se non ci fossero Giusi e l’associazione - sorride Valentina, stanca ma raggiante -, se lei non avesse avuto la forza di superare il dolore per la perdita di sua sorella Monica mettendosi a servizio degli altri, non so se adesso sarei ancora viva».

La diagnosi nel 2015

Quando Valentina ha dovuto affrontare la diagnosi, nel 2015, aveva 34 anni e i medici non le avevano dato speranze: «È iniziato tutto con sintomi all’apparenza trascurabili. Sentivo un orecchio tappato, credevo fosse labirintite. Mi sono rivolta all’ospedale Alto Vicentino di Santorso, e lì mi hanno consigliato una visita neurologica e poi una risonanza. Sono emersi i primi problemi, e mi hanno consigliato di eseguire un’angiografia. Il 2 luglio è arrivata la diagnosi di vasculite di Moyamoya ed è stato il giorno peggiore della mia vita. Mi hanno detto che la situazione era grave, in metà della mia testa la circolazione del sangue era compromessa, e non c’era soluzione. L’unica speranza secondo gli specialisti sarebbe stata rivolgersi a un ospedale specializzato a Berlino oppure partire per il Giappone. Un colpo tremendo».

«Ho scoperto l’associazione Amici del Moyamoya di Scanzorosciate e grazie a loro ho conosciuto il neurochirurgo Andrea Lanterna dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, specialista negli interventi per la cura del Moyamoya»

Valentina in questo momento difficilissimo ha dimostrato di avere una tempra forte, da grande atleta, seguendo la lezione di Dean Kazarnes, corridore statunitense: «Corri quando puoi, se non puoi, cammina e, se non puoi camminare, striscia. Fai quello che devi, ma non mollare mai». Non si è arresa, ha trovato la forza di reagire, proseguendo le ricerche per trovare la struttura e gli specialisti adatti a lei, e i suoi sforzi sono stati premiati: «Ho scoperto l’associazione Amici del Moyamoya di Scanzorosciate e grazie a loro ho conosciuto il neurochirurgo Andrea Lanterna dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, specialista negli interventi per la cura del Moyamoya. Così alla fine di luglio 2015, a meno di un mese dalla diagnosi, sono arrivata a Bergamo per incontrarlo e sono stata ricoverata per accertamenti una ventina di giorni. Il dottor Lanterna mi ha spiegato che avrei dovuto affrontare un delicato intervento chirurgico. Avevo molti timori, ma era un bel cambiamento rispetto al primo verdetto, quando mi avevano detto che nella mia situazione non c’era niente da fare. Il dottor Lanterna mi ha dato molta sicurezza e mi ha seguito sempre, anche nella riabilitazione».

L’impatto emotivo

Le condizioni di salute di Valentina consigliavano di agire presto, perciò l’operazione è avvenuta poco dopo, il 23 settembre: «Sono rimasta in ospedale per circa un mese, e non è stato un soggiorno piacevole. Ho cambiato sei compagne di stanza e due, purtroppo, non ce l’hanno fatta. L’impatto emotivo è stato molto forte, ho attraversato momenti drammatici. Fortunatamente ho sempre avuto accanto mia sorella Silvia e Paola, una cara amica, con cui taglio sempre ogni traguardo. Grazie al loro sostegno sono riuscita a superare il periodo peggiore». Dopo l’intervento c’è stato un anno di assestamento: «Il corpo - chiarisce Valentina - doveva riabituarsi alla nuova vascolarizzazione, perciò dovevo stare attenta a non affaticarmi troppo, e ovviamente mi sono adeguata. Mi sentivo miracolata, e mi sono concessa il tempo che occorreva. Quando il dottor Lanterna mi ha dato il permesso ho ricominciato gradualmente ad allenarmi».

«Quando è arrivato il momento dell’intervento mia sorella era accanto a me e ci siamo scambiate una promessa. Se tutto fosse andato bene avremmo partecipato insieme alla maratona di New York»

Valentina si era già appassionata alla corsa prima di scoprire la sua malattia: «Ho iniziato per seguire mia sorella - ricorda - ma non ce la facevo a starle dietro, perché ero sempre affaticata. Quando è arrivato il momento dell’intervento lei era accanto a me e ci siamo scambiate una promessa. Se tutto fosse andato bene avremmo partecipato insieme alla maratona di New York». Con pazienza e tenacia, Valentina è riuscita a realizzare questo sogno: «Ci siamo preparate con cura e con prudenza, perché una maratona non è uno scherzo, e nel 2019 alla fine ce l’abbiamo fatta. Quando sono arrivata al traguardo mi è sembrata un’impresa incredibile e ho pensato subito a Giusi, all’associazione Amici del Moyamoya e al dottor Lanterna che l’avevano reso possibile. Il primo messaggio è stato per loro». Così ha scritto al dottor Lanterna: «Solo per dirti che hai operato una maratoneta».

«Nella corsa ho trovato la mia strada di rinascita, ma nel frattempo ho continuato a sentirmi in debito con l’associazione»

La gratitudine si annida nel cuore come un seme e pian piano cresce, germoglia, dà frutto. Così Valentina ha continuato a pensare a un modo per restituire un po’ del bene che aveva ricevuto: «Ho pensato spesso a Monica e a chi come lei non ce l’aveva fatta a superare la malattia. Nella corsa ho trovato la mia strada di rinascita, ma nel frattempo ho continuato a sentirmi in debito con l’associazione. Fin da allora ho pensato che mi sarebbe piaciuto fare qualcosa per dimostrare concretamente la mia gratitudine. Poi ci sono stati i due anni di pandemia e mi sono sentita molto toccata dalla situazione tragica di Bergamo durante la prima ondata. Il Covid ha bloccato tutte le iniziative sociali e di beneficenza, ma intanto in me continuava a crescere il desiderio di lanciare un messaggio forte di attenzione e di solidarietà».

«Mi è sembrato che conciliare la mia passione per lo sport con azioni di sensibilizzazione fosse la scelta più azzeccata. Così mi è venuta l’idea della staffetta»

Nell’autunno scorso, in occasione della prima cena dell’associazione Amici del Moyamoya dopo un lungo periodo di chiusure e lontananza, Valentina è tornata a Bergamo: «Ho parlato a lungo con Giusi e le ho manifestato le mie idee. Nel tempo ho acquistato una maggiore consapevolezza di me stessa e di ciò che potevo fare: mi sono detta che per una persona come me, che aveva affrontato una malattia grave e un complicato intervento neurologico, cimentarsi in un’impresa sportiva - come la maratona di New York – è stata una scelta forte. Mi è sembrato quindi che conciliare la mia passione per lo sport con azioni di sensibilizzazione fosse la scelta più azzeccata. Così mi è venuta l’idea della staffetta».

«Abbiamo accettato subito con entusiasmo, organizzando anche una raccolta fondi per l’associazione Amici del Moyamoya onlus e incontri di sensibilizzazione per far conoscere la malattia»

Una volta tornata a casa si è subito consultata con Alessandra Pesavento, presidente della Asd Macuri Team di Schio, con cui da tempo svolge attività sportiva: «Abbiamo accolto con entusiasmo il suo progetto - sottolinea Alessandra -. Già in passato avevamo aderito a iniziative di solidarietà, organizzando per esempio una staffetta a Norcia, per aiutare le popolazioni colpite dal terremoto, e poi un’altra per contribuire a un progetto dei ragazzi autistici di PizzAut. Questa volta la causa da sostenere riguarda direttamente una nostra socia, anche per questo abbiamo accettato subito con entusiasmo, organizzando anche una raccolta fondi per l’associazione Amici del Moyamoya onlus e incontri di sensibilizzazione per far conoscere la malattia».

«Il bene genera il bene»

Così è nato un circolo virtuoso di amicizia e di aiuto reciproco: «Mi sono resa conto - aggiunge Valentina - di essere circondata da cuori giganti. La solidarietà è un volano, il bene finisce sempre per generarne altro. Abbiamo capito che questa corsa poteva veicolare un messaggio importante e forte. Abbiamo iniziato a organizzarla a dicembre e tutti ci siamo sognati e immaginati più volte l’arrivo, con un forte significato simbolico».

«È fondamentale avere delle persone accanto, amici che ti sostengono e ti affiancano, come è capitato a me»

Sono stati due giorni ad alta intensità emotiva: «Ognuno dei corridori - osserva Valentina - ha partecipato con grande spirito di collaborazione. Alcuni li conoscevo, altri no, ma ognuno si è unito al nostro gruppo con una forte motivazione. So che qualcuno di loro ha perso un proprio caro proprio a causa di una malattia rara. È stato un percorso molto coinvolgente, all’arrivo di ogni tappa mi scappava qualche lacrima. La corsa spinge a capire quanto si è fortunati quando si sta bene. Sono state giornate bellissime, anche se non sempre facili, perché mi hanno spinto a rivivere da capo tutta la mia storia. Mi ricorderò di questa avventura per tutta la vita. Ho avuto la gioia di un nuovo inizio e dopo l’intervento vivo ogni giorno come un regalo. Penso che sia importante che questo messaggio venga diffuso, che chi si ammala non debba mai soffrire di solitudine, perché c’è sempre speranza di farcela, ma non da soli. È fondamentale avere delle persone accanto, amici che ti sostengono e ti affiancano, come è capitato a me».

© RIPRODUZIONE RISERVATA