Alex era appeso a un polmone d’acciaio e ai respiratori. Soprattutto all’amore

LA STORIA. Aveva solo 11 anni quando i medici gli diedero tre mesi di vita: si è spento sabato a Bagnatica a 49 anni tra le braccia della mamma. Colpito dalla rarissima sindrome di Dubowitz come il fratello morto a tre anni nel 1965.

Nel 1965 tal medico inglese Victor Dubowitz descrive per la prima volta una sindrome che prenderà il suo nome e che si caratterizza con una serie di anomalie congenite: si stima, oggi, abbia un’incidenza di meno di un caso su più di un milione di persone. Rarissima. Nello stesso anno, Lucia Campari perde il suo primo figlio, Tiberio: aveva tre anni. Si capirà poi, anni dopo, che era uno di quei casi su oltre un milione. L’anomalia genetica scorre anche in un altro dei figli di Lucia, Alex.

Alex Zanini aveva 11 anni quando i medici dicono ai genitori: gli restano tre mesi di vita. Vivrà invece altri 38 anni. Se n’è andato sabato in tre minuti, nella dolce casa in cui ha vissuto al termine di quello che è senz’altro stato un lungo calvario. Ma è facile liquidare così la sua vita, se non varchi la soglia del mondo di Alex.

Il polmone d’acciaio

Quando ha sei anni, si affacciano i primi sintomi del quadro Dubowitz, al «Besta» di Milano li osservano nella scoliosi «a esse» e nei problemi di respirazione; lo indirizzano all’Istituto Rizzoli di Bologna, allora come oggi un’eccellenza. Lì si potrebbe provare a «raddrizzare» un po’ la colonna, invece non lo si può operare per via dell’insufficienza respiratoria. Lo spostano al «Sant’Orsola», altra eccellenza. È lì che gli danno tre mesi di vita. Poi però il primario Mario Schiavina, che in quelle settimane era negli Stati Uniti, torna e prende una decisione. Proviamoci.

Così la vita di Alex entra in un polmone d’acciaio. Un ragazzino, e in quel posto ci sono solo persone molto più avanti negli anni. «Era la mascotte - racconta mamma Lucia -. Sa che medici e infermieri lo portavano a casa a mangiare le tagliatelle?». Perché in quel macchinario non è che ci deve stare giorno e notte. Solo di sera, di notte, ma ogni giorno. Mentre con la sua dolcissima famiglia nella casa di Bagnatica piena di figli, generi, nuore e nipoti, scava in una scatola di fotografie e sorride a quelle vecchie istantanee in cui c’è questa lunga storia, mamma Lucia racconta che a un certo punto la Regione Emilia Romagna insomma presenta un conto: Alex costa al giorno 480mila lire (allora c’erano le lire). A Bergamo non c’è un polmone d’acciaio? C’è. Nei sotterranei del «Maggiore». Il dottor Schiavina prende in mano la situazione, chiama, briga, sbriga e alla fine il macchinario riemerge e viene portato al «Bolognini» di Seriate. «Al quinto piano – spiega Lucia – c’era la patologia neonatale, lo portano su con una gru, mi pare fosse della Zanoletti ma andiamo indietro tanto tempo, speriamo di ricordare bene... Insomma, spaccano il muro e aprono un varco per far passare il polmone». A memoria di Lucia, fu la prima volta che quella macchina entrava in funzione. Da Bologna, il primario invia i suoi infermieri al «Bolognini» per formare i colleghi a gestire il «guscio» che permette ad Alex di vivere. Passa lì un anno, poi non basta più nemmeno il polmone. Torna al «Sant’Orsola» e Schiavina gli dice questo: «Alex, o la tracheotomia o muori».

«Io non voglio morire»

«Io non voglio morire». Lo ripeterà fino all’ultimo giorno. Alla «tracheo» va attaccato un respiratore e allora non è che ci fosse poi tutta l’attrezzatura che c’è oggi. I respiratori, sempre più maneggevoli e sofisticati, si può dire che li inventano e li testano su di lui. Così come a casa s’inventano cose per farlo stare meglio, mentre la malattia non si ferma, ma degenera insieme ad Alex. Quel che non degenera, mai, è la forza di mamma Lucia.

A 33 anni resta vedova, ha tre figli piccoli, deve tirare avanti la famiglia, alla mattina prende la corriera, cambia a Bergamo, ne prende un’altra e va a Mariano di Dalmine, dove fa la bidella. Farà poi la bidella all’Esperia, infine la trasferiscono a Bagnatica, finalmente. Si risposa e avrà l’ultimogenita, Lara. A 45 anni se ne va per sempre un altro figlio, Alfio, portato via da un cancro. Alex lì crolla, perché Alfio era sempre stato in casa con lui e con la mamma, era il suo sostegno quotidiano e costante.

Genio del computer

Crolla, ma non smette di fare. Fare? Con quella terribile malattia, attaccato giorno e notte al respiratore? Alex è un genio del computer, uno «smanettone» e se c’è qualcuno che ha problemi con i pc, Alex risolve. Otto anni fa smette di parlare, non riesce più. Ma non smette di dialogare, via computer e i-Pad. Ripercorre con i nipoti le sue trasferte dietro alla passionaccia per il Milan, a Milanello, ha foto con mister Ancelotti, con Shevchenko.

E si aggrava. Si spegne, molto lentamente, tenuto in vita dalle macchine, da una grande fede (è Testimone di Geova), dalla forza d’animo. Scherza sempre con quella mamma «sublime» (la definisce così, Lara). Le dice che non ha paura di morire. Lei risponde di aspettare fino a fine mese così prende la pensione.

«È stato un eroe»

Un mese fa si sente ancora con Schiavina. «Cosa fai ancora vivo?», gli dice quello. Scherzano. Sabato Tiberio (nato pochi mesi dopo la morte del fratello che aveva il suo stesso nome), insieme a mamma lo porta a letto come ogni pomeriggio. Alex però non si sveglia. Quando hanno chiamato il dottor Schiavina per dirglielo, il vecchio medico non ci credeva: «È stato un eroe».Resta, come sospeso, nell’aria, nei muri, negli occhi di questa mamma, in questa dolce casa, tutto l’amore che ha tenuto in vita Alex ben oltre ogni previsione. Perché questo è stato. È stato l’amore.

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