
Sport / Valle Seriana
Giovedì 19 Giugno 2025
Il mental coach Ceccarelli: «In viaggio nella testa dei campioni»
L’INTERVISTA. Da 36 anni è a fianco dei fuoriclasse dello sport: da Senna
a Schumacher, da Brignone a Paltrinieri, da Shiffrin a Sinner. Vive a Viareggio: «Ma mia mamma è di Alzano, Bergamo è la mia seconda casa».
Da Ayrton Senna e Michael Schumacher, fino all’attuale numero 1 del tennis mondiale Jannik Sinner. Passando per Shiffrin, Brignone, Paltrinieri, Fiamingo. Pagine di storia dello sport con un nome in comune: Riccardo Ceccarelli. L’uomo che con la sua Formula Medicine, a fine anni 80 ha rivoluzionato il concetto di allenamento mentale nello sport. Un toscano dalle idee chiare – laureato in Medicina e Chirurgia e specializzato in Medicina dello Sport – con forti radici bergamasche. «Da parte di madre – spiega – che vive ad Alzano Lombardo. Bergamo è il luogo della mia famiglia ed è un po’ la mia seconda casa: è curioso e mi fa piacere che Sinner abbia vinto proprio lì il suo primo titolo».
Come nasce la passione per lo sport?
«La prima ambizione era fare il pilota. Credevo di essere un talento, invece ero solo lento. Ma in Formula 1 ho sviluppato i contatti che mi sono serviti nel lavoro. Il primo cliente fu Ivan Capelli, nel periodo in cui si cominciava a capire che anche i piloti dovevano essere trattati come atleti, curandone fisico e mente. Avrei firmato per rimanere due o tre anni, ne sono passati 36. Anche se poi Formula Medicine si è allargata ad altri sport».
I ricordi che restano?
«Sono legati alle persone che non ci sono più: Ayrton Senna, che ho avuto l’onore di conoscere da vicino, ma anche Michele Alboreto e Jules Bianchi. Gentiluomini in primo luogo, poi straordinari atleti. Per arrivare a essere un pilota di successo devi essere speciale. La morte non è un bel ricordo ma è la vita di questi personaggi ad averci insegnato qualcosa».
Ha creato la Mental economy gym. Ce la spiega?
«All’inizio pensavo che un atleta dovesse essere forte nella sua disciplina, punto. E che il mental coach servisse solo a chi aveva problemi. Mi sbagliavo. Studiando lo stress dei piloti, arrivai all’evidenza oggettiva che il rendimento dipendeva più dalla testa che dal fisico, perché la testa è come un muscolo e va allenata. Da quel momento abbiamo sviluppato un progetto ingegneristico per misurare le performance mentali, che è diventato la Mental economy gym. A parità di performance, chi spende meno vince: trattiamo il cervello come un motore, ti devo dare più cavalli spendendo meno benzina».
E come è approdato al tennis?
«Ho giocato a livello agonistico da bambino, partecipando anche alla Lambertenghi (gli Italiani Under 12, ndr). Poi lo avevo messo da parte, ma mi era rimasto nel cuore perché è lo sport che riassume tutto: sei solo, c’è la componente tecnica, quella fisica, quella mentale. A Viareggio ho conosciuto Paolo Bertolucci, che mi ha presentato l’ex pro Matteo Marrai, da lui siamo arrivati al Piatti Tennis Center e nel 2021 è cominciata la collaborazione».
Cosa insegna, il tennis?
«È una metafora della vita, più di altri sport. La mia frustrazione è che la scuola italiana non valorizza lo sport, mentre la cultura sportiva insegna molto: devo superare l’avversario ma rispettandolo. Il tennis insegna a vincere ma soprattutto a perdere, spostando i limiti e cercando le risorse. Sono tutte cose che nella vita servono».
Lei collabora anche con la Fitp.
«Ero un po’ allergico in generale alle federazioni sportive. Poi ho conosciuto quella del tennis e in particolare Michelangelo Dell’Edera (direttore dell’Istituto superiore di formazione, ndr), un visionario. La Fitp ha tutta la mia ammirazione perché è all’avanguardia a livello internazionale: ha un sistema capillare che permette di arrivare nei circoli più lontani, formando in primo luogo i maestri».
L’età dell’oro del tennis azzurro nasce da qui?
«Non credo ci siano flussi astrali che ti mandano tanti campioni allo stesso tempo, non si passa da zero a cento per caso. Bisogna creare il terreno. Quanti tennisti italiani si sono persi negli anni, perché non erano stati messi nelle condizioni ideali? Sinner, per esempio, in altri tempi avrebbe potuto virare verso lo sci. O magari sarebbe emerso più lentamente. La Fitp e i coach, ora, sanno mostrare ai giovani come cucinare gli ingredienti a disposizione».
Quale fu la prima impressione, incontrando l’attuale numero 1 Atp?
«Un ragazzo semplice, intelligente, con uno spiccato senso dell’umorismo. Aveva 19 anni e cominciava ad avvicinarsi ai piani alti, ma doveva ancora completare il suo percorso di maturazione. Si notava che era diverso dalla media, ma l’ultimo passo è il più complesso da gestire. Tra essere numero 10 e numero 1 c’è una differenza minima, ma c’è, si sente nei momenti chiave. Pensiamo a tutti i talenti che frequentano il Tour, ma non arrivano al livello di Sinner e Alcaraz».
«La squadra è decisiva. Servono unione e coordinamento, perché il tuttologo non esiste più. Chiaro che sono costi difficili da sostenere per chi sta emergendo, ma appena se ne ha la possibilità è giusto investire. Poi il tennista deve diventare il leader del team: il campione deve diventare sempre più indipendente, perché con l’esperienza sa quello che gli serve»
Come si gestisce una situazione come la recente sconfitta in finale al Roland Garros?
«Lo sport ti regala gioie e momenti duri, ma solo chi arriva lì può subire quel tipo di delusione. Pensiamo a Federer contro Djokovic nel 2019 in finale a Wimbledon, due match-point mancati. Lo stesso Sinner aveva ribaltato una sfida con Djokovic in Davis dopo che il serbo aveva mancato tre match-point di fila. È la palla che esce di un centimetro, il pallone che va sul palo in una finale dei Mondiali. Poi però la delusione evapora e resta solo il lato positivo. Incluso il pensiero che ti ricapiteranno tante occasioni del genere. Oggi Federer non è ricordato per quei due match-point mancati, non gli hanno cambiato la carriera. È un mito, a prescindere dalla situazione».
Nello sport si cerca la perfezione. Ma non si rischia di rimanere frustrati a vita?
«Brignone, Shiffrin, Paltrinieri, Fiamingo, ma potrei continuare, sono tutti perfezionisti. Oggi il vincente è un perfezionista, mentre un tempo non era così. Pensiamo agli anni 70 o 80: nel tennis c’erano i Nastase, i McEnroe, genio e sregolatezza. Ma c’erano pure i piloti come James Hunt o i calciatori come George Best. Oggi, con la tecnologia entrata in modo così prepotente nello sport, quando tutto è scientifico e oggettivo, il campione ha dei numeri da studiare per prepararsi meglio. Devi essere umile ed essere un secchione, per diventare una star: chi non è perfezionista, perde».
«Un consiglio? Essere onesti con se stessi. Non cerchiamo scuse quando va male: non perdiamo a causa del sole, del vento, del pubblico. Magari c’è qualcosa di vero, ma non devono diventare alibi»
Alcaraz sembra di un’altra idea.
«Non mi piace parlare di chi non conosco personalmente. Solo, non prenderei per oro colato il documentario su di lui: quello che è uscito è quello che volevano fare uscire, è l’immagine pubblica che magari non corrisponde a quella reale. Un’altra cosa: lui a fine 2024 dichiarò di essere arrivato cotto, Sinner in seguito ha vinto le Finals e la Davis».
Quanto conta la squadra, nel tennis?
«È decisiva. Servono unione e coordinamento, perché il tuttologo non esiste più. Chiaro che sono costi difficili da sostenere per chi sta emergendo, ma appena se ne ha la possibilità è giusto investire. Poi il tennista deve diventare il leader del team: il campione deve diventare sempre più indipendente, perché con l’esperienza sa quello che gli serve».
Quando si può dire soddisfatto del suo lavoro?
«Quando l’atleta non ha più bisogno di noi, quando diventa talmente forte da essere anche indipendente. Gran parte del lavoro, uno come Sinner, a questo punto lo fa da solo. Ma c’è di più: quando il mental coach crea una dipendenza crea un atleta debole, non forte».
Dovesse trovare un paragone, per il migliore tennista al mondo?
«Robert Kubica, che ha appena vinto la 24 ore di Le Mans. Talento e consapevolezza: sono due campioni indipendenti».
Un consiglio ai campioni in formazione?
«Noi possiamo dare informazioni, ma il lavoro lo fa sempre l’atleta. Dico di mettersi in dubbio ed essere onesti con se stessi. Non cerchiamo scuse quando va male: non perdiamo a causa del sole, del vento, del pubblico. Magari c’è qualcosa di vero, ma non devono diventare alibi».
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