«Aiutare i più deboli è un dovere anche della scienza»

IL RICONOSCIMENTO. Lo scienziato bergamasco Giulio Pasinetti, da 40 anni negli Usa, è stato premiato da Biden per il suo impegno nei confronti dei più fragili.

Nella sua lunga carriera di scienziato ha ricevuto numerosi riconoscimenti prestigiosi, ma quello che gli è stato consegnato il 29 aprile a Washington, alla «Casa Bianca», ha un valore speciale: lo confessa con una punta di commozione Giulio Pasinetti, professore di Neurologia, Psichiatria e Geriatria al Mount Sinai Center di New York, nato a Bergamo, da 40 anni negli Usa, insignito del «Presidential Lifetime Achievement Award», un premio assegnato dal presidente degli Stati Uniti d’America Joe Biden e dalla vicepresidente Kamala Harris a chi si è distinto nell’impegno a favore dei più fragili. «Tutti i risultati che ho ottenuto nello studio e nel lavoro – dice – non avrebbero nessun significato se non avessi dedicato parte della mia vita all’aiuto degli altri». Il riconoscimento del suo impegno da parte della «Casa Bianca» costituisce il punto più alto di un impegno continuo e costante nella vita e negli studi iniziato in Borgo Canale 66 anni fa, un percorso che ripercorre volentieri.

Come è stato, per un giovane laureato bergamasco, l’arrivo negli Stati Uniti?

«Stiamo parlando di un’altra epoca, di un altro mondo che, prima di arrivarci, non avevo avuto modo di conoscere. I mezzi di comunicazione che oggi abbiamo a disposizione, che ci mettono in contatto con Paesi e persone in ogni parte del pianeta, non erano nemmeno immaginabili: all’inizio non esisteva nemmeno il fax. Si figuri che per arrivare a Los Angeles, prima tappa del mio percorso accademico negli States, erano necessarie 17-18 ore, con cambi di volo continui. Questo ha contribuito a farmi scoprire un universo nuovo: avevo l’opportunità di lavorare nel posto in cui la ricerca era più avanzata, di dedicarmi a ciò che amavo. È stata un’esperienza fondamentale anche dal punto di vista personale, che ha contribuito a farmi crescere, a diventare adulto».

Certo, oggi l’Europa ha colmato molto del divario con gli Stati Uniti, anche dal punto di vista scientifico: l’Italia come è messa?

«Ci sono centri di eccellenza, importanti personalità accademiche. Trovo però che in Italia si faccia ancora troppo poco per favorire la ricerca, in tutti i sensi. A cominciare - è giusto dirlo - dagli stipendi di chi vuole dedicare la propria vita allo studio. Questo non può che spingere i giovani a cercare altrove un ambiente che li stimoli a esprimere al meglio i propri talenti. Per rendere possibile lo sviluppo di un Paese, per costruirne il futuro, è necessario investire sull’educazione. Si tratta di scelte politiche: finché la formazione non sarà riconosciuta come una priorità, c’è poca speranza».

Ha parlato di giovani: lei quarant’anni fa ha deciso di dedicarsi allo studio dei processi d’invecchiamento, un argomento di strettissima attualità, che però non lo era all’epoca.

«C’erano già i segnali di un progressivo allungamento della durata della vita media. Se questo è indiscutibilmente positivo, non si può non considerare il rovescio della medaglia: l’insorgenza di diverse patologie, tra le quali le malattie neurodegenerative».

Molta della sua attività scientifica si è concentrata sullo studio della malattia di Alzheimer.

«Pensiamo che l’incidenza va dal 2% della popolazione ultrasessantenne a oltre il 25% tra chi ha superato gli ottant’anni. Questo incremento è ancora più drammatico in Paesi - come l’Italia - nei quali la natalità è ferma: entro i prossimi trent’anni, si stima che il 70% della popolazione avrà più di sessant’anni. Anche per questo motivo è necessario investire nello studio e, lo ribadisco, nei giovani».

A che punto è la ricerca sull’Alzheimer? Si può sperare nell’arrivo di una cura?

«La sfida è cogliere i primi segnali della malattia e prevenirne gli effetti più gravi. I progressi principali degli ultimi vent’anni sono rappresentati dal fatto di avere acquisito maggiore consapevolezza delle diverse fasi della malattia, che ora sappiamo riconoscere meglio. È migliorato il trattamento dei sintomi. Il problema è che si tratta di una malattia progressiva, irreversibile e degenerativa: dobbiamo cambiare l’approccio nei confronti della genesi della patologia, che va inserita in un quadro di decadimento sistemico. Ci si sta concentrando sempre di più sul ruolo del sistema immunitario e del microbioma. Qualche segnale positivo sembra arrivare da uno studio i cui risultati sono stati presentati solo tre settimane fa, che mostra l’efficacia di immunoterapie nel rallentare la progressione della malattia. Dobbiamo continuare in questa direzione».

Torniamo al punto da cui siamo partiti: il premio che le è appena stato consegnato.

«Ho sempre ritenuto importante contribuire a dare un’opportunità alle persone più svantaggiate, che si trattasse di veterani reduci dalla guerra in Iraq, che a 25 anni si trovavano a doversi ricostruire un’esistenza dopo essere stati sui campi di battaglia, o di ragazzi delle periferie delle grandi città statunitensi, che spesso non hanno accesso a un percorso formativo che consenta loro di esprimere al meglio le proprie potenzialità. L’ho sempre fatto nella convinzione che anche questo facesse parte del mio percorso di studioso e di scienziato. Il fatto che sia stato riconosciuto mi riempie d’orgoglio».

Cosa ricorda della cerimonia?

«È stato davvero emozionante. Al mio tavolo c’erano delle sedie vuote: su alcune è stata posta una bandiera degli Stati Uniti, in ricordo di chi ha combattuto e ora non è più con noi. Ho chiesto che ne fossero lasciate libere altre due, sulle quali mi sarebbe piaciuto si fossero potuti sedere i miei genitori, che purtroppo ho perso. Ho poi voluto che con me ci fossero due mie nipoti: stanno frequentando l’università nel New Jersey e in Canada. Loro sono il futuro, mio e della mia generazione. A loro ho affidato quello che mi piacerebbe fosse il mio ideale lascito: una vita fatta di motivazione, dedizione e passione».

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