Due anni di Covid, dai primi allarmi cinesi a quei giorni di febbraio con il virus in casa nostra

Il virus scoppiato a Wuhan a dicembre 2019 sembrava lontano. Nel giro di pochi mesi ha travolto tutto: la drammatica domenica di Alzano. La storia di quei giorni.

Una roba di cinesi. Distante migliaia di chilometri, troppi per preoccuparsi. Affari loro, insomma, le solite cose strane di un Paese misterioso di cui si conosce poco: Pechino, Shangai, la muraglia, gli involtini primavera, luoghi comuni e poco più. Wuhan poi chissà dove sta? Undici milioni di abitanti, mica piccola. Ma si sa che da quelle parti è tutto grande, anche le tragedie. Siamo sinceri, chi non l’ha pensato o liquidato la cosa così? Mancano pochi giorni al Natale del 2019, quello che si rivelerà poi l’ultimo del mondo come l’abbiamo conosciuto: la solita frenesia, la corsa al regalo, strade e negozi presi d’assalto, luminarie e aria di festa. A Wuhan intanto succede qualcosa di strano, gli ospedali sono invasi di abitanti colpiti da una polmonite di origine sconosciuta, come viene definita dalle autorità sanitarie locali. A Bergamo, in Lombardia, nel Paese, la vita continua come sempre, nessuno immagina cosa sta per succedere. Né può immaginarlo.

Wuhan? Sede dei Mondiali

Nel 2002 un’altra epidemia si era abbattuta sull’Asia, la Sars: era stata annunciata come un’apocalisse planetaria, ma al tirar delle somme gli effetti si erano rivelati più che contenuti. L’occidente non era stato praticamente toccato e anche per questo motivo che le prime notizie dalla Cina non suscitano molta preoccupazione. I corrispondenti dal Paese non prestano attenzione nemmeno a quell’annuncio del 12 dicembre dell’emittente di Stato Cctv che parla di un nuovo focolaio virale a Wuhan. Città che compare per la prima volta nelle pagine de L’Eco di Bergamo in un articolo del 31 dicembre ma solo perché è tra le 8 scelte dalla Federcalcio cinese per ospitare nel 2021 il primo Mondiale per club nel nuovo formato della Fifa.

È l’ultimo dell’anno, si rivelerà l’ultimo di tante altre cose. Quello stesso giorno le autorità cinesi fanno la prima segnalazione all’Oms, l’Organizzazione mondiale della sanità, e indicano come possibile luogo del contagio un mercato locale di pesce e animali. Di ogni genere. Una fattispecie che sembra allontanare sempre di più lo spettro di un contagio, perché correlata comunque a stili di vita del posto. La Cina è lontana, ma si rivelerà terribilmente più vicina.

Sintomi e prime ammissioni

Anche gennaio scorre tutto sommato liscio in questa parte del mondo: in Cina invece le autorità ammettono (obtorto collo) di avere identificato un nuovo virus appartenente alla famiglia dei coronavirus. Le notizie filtrano con il contagocce, ma la situazione si sta complicando e parecchio: a metà mese in Europa il rischio di una diffusione del contagio viene elevata a moderata, qualche giorno dopo il presidente cinese Xi Jinping decapita i vertici locali del partito e mette in quarantena Wuhan.

Ma il contagio si diffonde e le autorità cinesi comunicano che passa da uomo a uomo: i sintomi diventeranno tristemente noti, tosse, febbre e difficoltà di respirazione. Sembra un’influenza, si rivelerà molto di più. In Europa si cominciano ad elevare le misure di sicurezza negli aeroporti e nei confronti dei passeggeri in arrivo dalla Cina, dove la situazione precipita. La conferma arriva da un gruppo di studentesse bergamasche ai Nanchino che raccontano di una città deserta e una situazione di «allarme continuo» che le porta a non uscire dal campus in attesa di buone nuove.

«Questa è una pandemia»

Il problema è che non arrivano proprio e il contagio comincia a rivelarsi nella sua vera natura, quella di una pandemia.

I primi casi in Italia riguardano due turisti cinesi e per giunta originari della provincia di Wuhan atterrati a Malpensa il 23 gennaio e ricoverati a Roma. Le loro condizioni sono buone, ma l’origine ha l’effetto di circoscrivere ulteriormente la vicenda ad una questione cinese, anche se l’Oms lancia un’allarme drammatico: siamo di fronte a un’emergenza sanitaria mondiale. E ha un nome, covid 19.

Intanto inizia l’esodo degli italiani da Wuhan: al loro arrivo verranno messi per 14 giorni in quarantena, termine che diventerà familiare nel nostro lessico quotidiano. Come «lockdown» che per il momento continua però a restare un affare cinese e la cosa continua ad apparire rassicurante. I giorni a venire dimostreranno il contrario.

«Un nemico per tutto il mondo»

Febbraio è il mese che cambia per sempre le nostre vite. Con il senno di poi le parole di Mario Chen, imprenditore sino-italiano attivissimo a Bergamo appaiono profetiche: «Il virus non è un nemico della Cina, ma di tutto il mondo». La conferma arriva dall’aeroporto di Orio al Serio, dove le mascherine vanno a ruba nel giro di poche ore: sembrano un oggetto da fanatici orientali, da giapponesi oppressi dallo smog, e invece diventeranno le nostre compagne di vita.

I primi controlli in Lombardia sono però rassicuranti: zero casi. Ma il governo mette le mani avanti e dichiara da inizio febbraio lo stato d’emergenza per 6 mesi: verranno prorogati ancora, e ancora e ancora. Per il momento però i primi e soli effetti si limitano a un crollo delle presenze nei ristoranti cinesi a Bergamo e altrove. La Cina intanto è isolata, una fotografia in tempo reale arriva da Gabriele Filosi di Lovere, studente a Shangai: «Veniamo fermati continuamente dal personale incaricato che ci chiede i documenti e ci misura la febbre». Il 3 febbraio allo «Spallanzani» di Roma il virus viene isolato: «ora più facile trattare la malattia» è la rassicurazione che si rivelerà vana.

I governatori leghisti di Lombardia, Veneto e Friuli propongono di estendere anche ai bambini di ritorno dalla Cina il periodo d’isolamento e scoppiano le polemiche. Il 7 febbraio a Orio scattano i dispositivi di controllo per i passeggeri in arrivo che trovano ad attenderli personale in tuta, camici medici e mascherine pronti a rilevare la temperatura: sembrano scene da b-movie, ma il 7 febbraio arriva anche il primo italiano positivo al coronavirus, un ricercatore di 29 anni in arrivo da Wuhan. Dove nel frattempo muore Li Wenliang, il medico che per primo aveva lanciato l’allarme, quasi inascoltato.

Nella ridda di ipotesi sulla causa scatenante della pandemia fa la sua comparsa il pangolino, piccolo mammifero simile a un formichiere a rischio di estinzione e vittima di traffici clandestini per le sue scaglie, considerate un toccasana dalla medicina orientale, e la sua carne prelibata.

Atalanta-Valencia a San Siro

Il panorama è confuso, ma da questa parte del mondo la vita continua: il 12 febbraio il sindaco Giorgio Gori con Giunta al seguito fa pranzo in un ristorante cinese della città per provare ad alleviare la tensione e sconfiggere la psicosi. Il 15 febbraio l’Atalanta batte 2-1 la Roma in rimonta in un Gewiss Stadium strapieno nell’ultima partita prima della pandemia: 4 giorni dopo i tifosi bergamaschi invadono San Siro in migliaia per vedere il trionfo dei nerazzurri contro il Valencia. Per molti quella partita è stato il punto di non ritorno.

In mezzo, il 16 febbraio, l’Europa registra la sua prima vittima da Covid, un turista cinese di 80 anni. Pechino intanto mostra il cartellino rosso a tre giornalisti americani del Wall Street Journal, rei di avere scritto un articolo definito razzista e discriminatorio. Poi arriva il 21 febbraio, un venerdì, e tutto precipita. Ma non in Cina, dentro le nostre case.

Codogno e la zona rossa

Al «Papa Giovanni XXIII» viene ricoverato un uomo di mezza età, il sospetto è che abbia contratto il Covid. A meno di un centinaio di chilometri invece c’è già la certezza del primo contagio: succede in un paese del Lodigiano che tutti impareranno a conoscere molto a vicino: Codogno.

Nel giro di poche ore i contagi in Lombardia sono 6, poi subito 15. Sabato 22 c’è la prima vittima italiana, in Veneto: è un 78enne di Vo’ nel Padovano. Poche ore dopo arriva la seconda, una donna di Casalpusterlengo, sempre nel Lodigiano, a un tiro di schioppo da Codogno. In serata facciamo la conoscenza con il primo colore della nostra prossima vita: il rosso, quella della zona off limit che comincia con 10 comuni di Lodi e Vo’.

Quella domenica di Carnevale

Arriva domenica, quella di Carnevale, ma nessuno ha voglia di scherzare: in diversi paesi vengono annullate le sfilate, Atalanta-Sassuolo viene rinviata a data da destinarsi (verrà recuperata solo a fine giugno) e c’è timore per alcune squadre di calcio minore che hanno avuto partite nel Lodigiano. Ma è una preoccupazione paradossalmente inutile perché il virus è già qui.

Due casi positivi al «Pesenti Fenaroli» di Alzano (che insieme a Nembro diventeranno le nostre Wuhan, città martiri), uno a Seriate e uno a Bergamo. Il pronto soccorso dell’ospedale seriano viene chiuso e riaperto nel giro di poche ore: in serata al «Papa Giovanni» muore Ernesto Ravelli, 83 anni di Villa di Serio, la prima vittima bergamasca di una strage dai numeri ancora indefiniti. Non stava bene da giorni, ma sembrava solo una forte influenza: un destino che si rivelerà comune a molti altri.

In serata tutti i sindaci si incontrano con i vertici dell’Ats per fare il punto della situazione: quasi nessuno indossa la mascherina, c’è sì allarme ma la situazione pare sotto controllo. Non lo è. Il giorno dopo scatta la zona gialla, scuole chiuse e saracinesche abbassate dalle 18 alle 6: i morti diventano 2, i contagi 14. Il Covid è qui, l’inizio di una tragedia senza fine. Non è più solo una questione cinese, l’epicentro siamo noi, ma i bergamaschi non sanno ancora che stanno per vivere una delle pagine più buie e dolorose della loro storia. L’incubo Covid è qui, nelle nostre case.

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