Montagna, «Le comunità ora siano le protagoniste del cambiamento»

Inchiesta Terre Alte. Le comunità, e non solo i turisti, al centro di un progetto complesso, che tenga conto delle caratteristiche naturalistiche, ambientali e storiche delle valli bergamasche. Continua l’inchiesta sulle Terre alte de «L’Eco di Bergamo».

Un progetto che possa avere continuità nel tempo e che possa rappresentare un acceleratore di sviluppo per servizi che possano essere utili in primo luogo agli abitanti. È la ricetta per il turismo orobico di Federica Burini, geografa, professoressa dell’Università degli Studi di Bergamo e presidente del corso di laurea magistrale in Planning and management of turism system (Pianificazione e gestione dei sistemi turistici), che si propone di formare professionalità che sappiano leggere le potenzialità turistiche del territorio e valorizzarle.

Professoressa, cosa possiamo dire del turismo nella Bergamasca?

«L’idea che abbiamo, e che in questi anni si è rafforzata, studiando e incontrando il territorio, è quella che il turismo nelle Prealpi Orobiche sia stato un’esperienza e un fenomeno che non è stato cercato, ma che si è sviluppato a partire da fattori esterni. Questo probabilmente ha influenzato il fatto che, in termini storici, in quest’area manca una cultura del turismo».

Fattori esterni di che tipo?

«Di stampo imprenditoriale. Se ci pensiamo, le prime forme di turismo che abbiamo visto nelle valli sono state forme d’élite, le stesse che hanno costruito il paesaggio liberty delle Prealpi Orobie. Una costruzione esterna, portata da una borghesia esterna al territorio che le comunità si sono trovate «in n casa», con cui dover convivere».

Poi cosa è successo?

«Qualcosa è cambiato nel periodo post-bellico. Negli anni Cinquanta e Sessanta le comunità hanno ricevuto in modo passivo un altro modello, quello delle seconde case. Oggi viviamo un altro tempo, una terza fase caratterizzata dall’essere il «post pandemia». La pandemia e il cambiamento climatico ci stanno dando tanti input per poter cambiare direzione. Non possiamo permetterci di non considerare il valore del turismo sul territorio, ma dobbiamo guardare anche ai rischi che questo può portare».

Quali rischi?

«Quelle che definiamo le “patologie” del turismo di oggi: il turismo di massa, quello fatto da una concentrazione di grandi numeri di persone in uno stesso punto.. Un esempio di qualcosa che potrebbe essere molto virtuoso è quello delle «panchine giganti». Virtuoso perché si tratta di un’iniziativa che accompagna alla scoperta del paesaggio attraverso un tratto di cammino di almeno dieci minuti. Ma concentrandoci solo sul luogo della panchina e su quel pezzo di panorama, si esclude la possibilità di incontrare le altre realtà. Si arriva alla panchina, ci si scatta un selfie e poi, di tutto questo, cosa rimane sul territorio se non la parte social e di immagine? La panchina va agganciata in rete ad altri aspetti per la valorizzazione vera e diffusa di tutto il territorio, nel suo complesso. Altrimenti non si fruisce del lavoro delle comunità per la costruzione di quei territori».

Le stesse comunità che hanno generato i territori possono ora generare un nuovo modo di intendere il turismo?

«Oggi, anche in senso turistico, è necessario partire dalle comunità; sono le comunità che devono essere protagoniste del cambiamento. Noi possiamo affiancarle per aiutarle a progettare un turismo che rispetti le caratteristiche dei territori che quelle comunità abitano, tenendo in considerazione aspetti differenti: da quelli naturalistico – ambientali a quelli storico – culturali della montagna».

C’è la necessità di ri-conoscersi nei temi che caratterizzano la contemporaneità.

«Il cambiamento climatico interessa anche le montagne orobiche: le stagioni non sono più distribuite come nel passato e questo genera particolari aspetti turistico – ambientali da tenere in considerazione. Un altro fattore è quello dell’altimetria: spesso abbiamo aree, anche adibite allo sci, che non superano i 2.200 metri. Ci sono poi le caratteristiche storico – culturali: l’evoluzione economico produttiva di queste aree è storicamente incentrata su tre differenti ambiti: quello agro – silvo – pastorale, quello di un’industria antica (a partire dall’attività di estrazione mineraria) e quella dell’industria più recente. Inutile paragonarsi al Trentino o ad altre aree che storicamente riconosciamo per il successo di una vocazione turistica, quindi. Ogni territorio ha una sua specificità. La montagna Bergamasca ha forse bisogno di ritrovare se stessa, di riconoscere le proprie caratteristiche. Spesso ci dimentichiamo le nostre peculiarità, consideriamo i nostri territori come quelli delle Alpi, cosa che non siamo».

Quale turismo, quindi, è possibile la montagna bergamasca?

«Il territorio offre molti spunti da utilizzare per un turismo sostenibile: di basso impatto, ramificato (che connetta cioè le risorse attraverso proposte integrate) e destagionalizzato nel tempo. Un turismo diffuso nello spazio e nel tempo che possa valorizzare tutti gli aspetti del territorio. La sfida grossa è quella di utilizzare le forme di turismo come volano che possa accelerare altre forme di sviluppo territoriale. Un turismo quindi non fine a se stesso».

E cosa può rappresentare?

«Un acceleratore di sviluppo, un fenomeno che agganci aspetti diversi, ma che inneschi nuove forme di imprenditoria, di formazione. Qualcosa che possa essere agganciato all’abitare contemporaneo, che aiuti lo sviluppo di ambiti e servizi che servono agli abitanti del territorio a vivere quotidianamente».

Prima gli abitanti, quindi, e poi i turisti?

«Le aspettative devono rispondere prima alle comunità e di conseguenza al turista. Spesso è il turista a essere il primo obiettivo, invece prima si dovrebbe pensare al bisogno della comunità e, attraverso la risposta a questo bisogno, costruire qualcosa che possa essere attrattivo anche per il turista».

Come può una comunità intraprendere questa strada?

«Facendosi accompagnare in un percorso di lettura delle proprie condizioni economico e ambientali, per massimizzare le potenzialità coinvolgendo le diverse anime del territorio. L’università cerca di formare i propri studenti in questo senso: poiché ci siano mediatori che diano voce ai vari esponenti del territorio per valorizzarli anche in chiave turistica».

E dal punto di vista economico, di cosa c’è bisogno per andare in questa direzione?

«Se ci sono investimenti va benissimo, ma devono essere monitorati e gestiti con il coinvolgimento delle comunità locali, mettendo in luce e in valore i saperi del territorio generati nel tempo.le per non fare errori in futuro».

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