Bergamo tra le bellezze d’Italia
Parola del critico d’arte Daverio

L’Oratorio dei Disciplini di Clusone, Santa Grata e il museo Bernareggi tra i gioielli dell’arte italiana citati dal critico francese Philippe Daverio nel suo «Grand tour d’Italia a piccoli passi».

Di Philippe Daverio è uscito per Rizzoli «Grand Tour d’Italia a piccoli passi» (pp. 416, euro 32,90), un viaggio lento condotto attraverso le bellezze del Paese, «guidati dalla curiosità». Per gentile concessione, pubblichiamo le pagine che parlano di Bergamo.

Bergamo, con le sue valli e le sue vette, è un centro dall’animo storico profondamente cosmopolita: lombardo nel cuore ma veneziano d’adozione, e per di più crocevia montano fra l’Italia e il resto d’Europa, perché a lungo è stata una delle porte attraverso le quali la cultura francese e germanica valicava le Alpi per diffondersi lungo la penisola. Non stupisce allora che qui, più e più a lungo che altrove, si inizi e si continui a giocare con un tema di origine transalpina che oggi non può che farci rabbrividire: la morte. Che nel bergamasco appare, a seconda delle epoche e delle intenzioni, seria o ridanciana, ma comunque sempre trionfante.

L’oratorio dei Disciplini

La cittadina di Clusone ha tuttora un che di medioevale, con le sue bottegucce intatte e quattrocentesche. È cresciuta e si è sviluppata, dal XV al XIX secolo, sotto l’ala della Repubblica di Venezia, ma seppure sia stata a lungo veneta, la rizzata perfetta e gli scalini di certe sue salite sono la cosa più lombarda che possa esistere.

Alla fine di una di queste, davanti alla seicentesca Basilica di Santa Maria Assunta, ecco che appare la meraviglia: l’Oratorio dei Disciplini, con in bella vista il testamento del mercante che ha fatto il lascito per farli campare e la scritta “Omnes morimur et velut aqua delabimur” – “tutti moriamo, e come acqua scivoliamo via”. Ottima introduzione per la più importante delle Danze Macabre dell’arco alpino, dipinta sulla facciata esterna dell’Oratorio.

La morte, al centro, è trionfante e ridanciana; dei due scheletri che ha ai lati, uno lancia le sue tre frecce e l’altro spara con l’archibugio, segno che ci troviamo di fronte a una pittura estremamente «uptodate». La morte colpisce tutti: ricchi, potenti e poveri. Ma forse qui si accanisce con maggior cattiveria sui primi: più che una descrizione trasversale della società, questo è un ambito di vendetta dei poveri nei confronti dei ricchi. E poi, sotto al Trionfo della Morte, un tema sostanzialmente nuovo per l’epoca: la danza degli scheletri, ridenti come quelli di un cartone animato, con i vivi, decisamente meno allegri. La morale, qui, è del tutto intuitiva.

Questo genere di pitture, diffuse invero in tutta Europa, dovrebbe nascere da un prototipo originario parigino del 1424 e cioè la decorazione delle pareti del chiostro del Cimitero degli Innocenti, poi scomparso. Riappare a Clusone nel 1485 circa in questo straordinario dipinto, considerato la prima Danza Macabra d’Italia.

Quest’opera fu voluta dai Disciplini, una confraternita nata verso la fine del Duecento in Italia centrale e che si era sparsa attraverso tutta la penisola. Era legata al mondo francescano, cosa che risulta evidente anche nell’iconografia: i dipinti dell’Oratorio di Clusone mi ricordano terribilmente quelli di Benozzo Gozzoli nella chiesa di Santa Lucia di Montefalco, in Umbria.

È un ciclo di affreschi caratterizzato da una pittura drammaticamente popolare e da un contenuto accurato, che sembra dipanarsi sotto lo sguardo attento della statua di san Bernardino da Siena, fervente francescano, il quale, essendo venuto qua probabilmente per un miracolo, è raffigurato secondo lo stile indigeno, con gli zoccoli come quelli che piacevano a Ermanno Olmi e una faccia precisa, dura, porro incluso, ma col saio d’oro.

Nell’absidiola dell’Oratorio la questione si fa molto più complessa. Le mani che partecipano sono tante: alcuni artisti abili, altri meno e altri eccellenti. Si mescolano i temi cristiani con i temi dell’Umanesimo alla moda. Sono rappresentati i quattro venti, in una sorta di curioso angelo dall’ala bianca e dal corpo muscolato, ma anche i quattro elementi: il fuoco, la terra, l’acqua e l’aria. Al centro, l’angelo musicante è seduto accanto a una pera, che è la versione bonaria della mela del peccato, mentre il cherubino nell’angolo ha la faccia sconosciuta come se avesse già imparato i fascini della mondanità un po’ mantegnesca, e forse per questo motivo porta al collo una collana di corallo che è cristologica, perché rappresenta il sangue di Cristo, ma qui è anche per un certo verso ornamentale. I dottori della Chiesa sono dipinti con abilità e attenzione, con i libri ben disposti e con un dato nuovo prospettico che è forse anch’esso di origine mantegnesca: sono visti in prospettiva dal basso.

La chiave per capire il collegamento fra la Danza della Morte, all’esterno, e gli affreschi all’interno, è il dipinto di un Cristo crocifisso secondo i parametri della cultura centroeuropea, dove la croce è di piena falegnameria e i ladroni sono legati di traverso con le braccia all’indietro: quello buono rimette l’anima all’angelo, mentre un diavolo strappa l’anima a quello cattivo. Modello rarissimo in Italia, seppur presente anche nel ciclo di affreschi di Altichiero nell’Oratorio di San Giorgio a Padova. Inconsueto quanto il bizzarro dettaglio del dipinto in cui i soldati si giocano a dadi, secondo la tradizione, la tunica di Cristo, mentre alle loro spalle tre ebrei compiono un gesto curiosissimo per aggiudicarsi la medesima tunica: estraggono la paglia più corta.

L’Oratorio dei Disciplini è tutto un incrocio di gusti, di tempi e di situazioni che non si spiegherebbe senza considerare la collocazione geografica di Clusone e l’atmosfera storico-artistica della fine del Quattrocento.

Santa Grata Inter Vites

A Bergamo alta si trova invece Santa Grata inter Vites, una chiesa seria del gusto storico della più severa Controriforma, nelle eleganze del Settecento. In questo contesto piuttosto inusuale, dietro all’altare esplode l’ironia dinnanzi alla morte, proprio quella che proviene dal più profondo Medioevo, diventata moderna. Il macabro ridens data 1802-1810: sono le Scene degli scheletri viventi di Paolo Vincenzo Bonomini, nate come decoro d’un catafalco successivamente preso in consegna dalla chiesa.

Qui troviamo uno scheletro tamburino che reca sul cappello la prima coccarda tricolore, quella che usiamo ancora oggi: pura Repubblica Cisalpina, con la bandiera a strisce verticali. L’ironia assoluta esplode nella scena della morte intenta a dipingere un proprio autoritratto, ma attenzione: è una morte non priva di un certo gusto per l’eleganza, anzi quasi vezzosa, con il codino settecentesco, il cappellino a visiera come per andare a giocare a golf, e un elegante allievo, il tutto sotto il volo convinto dei pipistrelli. Siamo già pronti per i film moderni. L’intero ciclo sembra essere la lezione finale di una Biblia pauperum in versione postrivoluzionaria e quindi perfettamente sincretica, contrassegnata da un’ironia profonda: la morte è il vero falegname e tocca tutti, i ricchi signori con il cagnolino e i contadini con lo stignat della polenta.

Il museo «Adriano Bernareggi»

D’altronde questo gusto del macabro ridanciano fa parte di tutta la cultura settecentesca bergamasca e si trova in un altro ciclo molto significativo all’interno del Museo Diocesano. Qui lo scheletro diventa, di volta in volta, la nobildonna con la collana di perle, il prelato e poi il potere, il papa accanto alla contadina, il monarca, il doge di Venezia, l’ermellino del magistrato e infine la professione meglio illustrata nella storia della pittura bergamasca: il sarto. Questi erano i quadri che venivano esposti d’inverno durante il sacro triduo dei morti, un rito lungo tre giorni, di profonda riflessione sulla vanitas ma anche in realtà di straordinaria ironia, oggi forse non pervenuta. O quasi.

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