Castellitto, il vagabondo che cerca il senso della vita

Teatro. Sabato 25 marzo e domenica 26 al Crystal di Lovere «Zorro, un eremita sul marciapiede». L’attore: «Interpreto un uomo che perde tutto e riflette sulle sue scelte».

Quando ci si avvicina a senza tetto, homeless, clochard, senza fissa dimora, e ci si prende il tempo di scambiare qualche parola con loro, si rimane sempre impressionati dalla precarietà di esistenze che sembravano sicure, giuste, al riparo da quelle scosse telluriche che abbattono ogni certezza. Bastano una malattia, un investimento sbagliato, una separazione, un licenziamento, e ci si ritrova senza niente. Senza soldi, senza un riparo, senza affetti. Eppure, anche da una panchina, o da un portico sotto il quale ci si ripara con un cartone e una coperta, è possibile conservare la propria umanità fatta di capacità di pensiero e di osservazione. È questo lo spunto di «Zorro, un eremita sul marciapiede», lo spettacolo che stasera e domani vedrà protagonista sul palco del Crystal di Lovere Sergio Castellitto, che (re)interpreta un monologo scritto dalla moglie Margaret Mazzantini vent’anni fa.

«Zorro è un uomo che vive in strada – spiega l’attore romano, impegnato in questi giorni sul set di un nuovo film - ma che in realtà un tempo era perfettamente inserito nella società civile, con un lavoro, un amore, degli amici. Una serie di circostanze e di traumi l’hanno portato a perdere tutto. E così ora è immerso in questa sorta di osservatorio particolare che è il marciapiede, cercando di scoprire qualcosa della propria esistenza. Una situazione che tuttavia non gli impedisce di avere grande dignità».

Sergio Castellitto ha deciso di riportare in scena lo spettacolo sulla scia di quanto avvenuto durante la pandemia da Covid: «È un testo scritto nel 2002 che all’epoca mi regalò mia moglie per tornare a teatro. Un dono in cui ci siamo imbattuti di nuovo durante il lockdown, scoprendo il bisogno di parlare di solitudine, complice anche l’inedita situazione di silenzio. E nelle poche repliche fatte finora mi sono accorto come il ritmo e l’intensità delle parole siano visceralmente condivisi dal pubblico».

Muovendosi sul palco, Zorro ripercorre la storia della propria vita e le scelte che lo hanno portato sulla strada e, nel mentre, riflette sul significato della vita. Un uomo ai margini della società capace di vedere la realtà osservando la vita delle persone «normali». Capace di restituire attraverso una sorta di «filosofare» allegro e indefesso il «sale della vita», la complessità e l’imprevedibilità dell’esistenza. Uno spettacolo tragicomico ed emozionante.

«Zorro – spiega l’autrice Margaret Mazzantini - mi ha aiutato a stanare un timore che da qualche parte appartiene a tutti. Perché dentro ognuno di noi, inconfessata, incappucciata, c’è questa estrema possibilità: perdere improvvisamente i fili, le zavorre che ci tengono ancorati al mondo regolare. Chi di noi in una notte di strozzatura d’anima, bavero alzato sotto un portico, non ha sentito verso quel corpo, quel sacco di fagotti con un uomo dentro, una possibilità di se stesso? I barboni sono randagi scappati dalle nostre case, odorano dei nostri armadi, puzzano di ciò che non hanno, ma anche di tutto ciò che ci manca. Perché forse ci manca quell’andare silenzioso totalmente libero, quel deambulare perplesso, magari losco, eppure così naturale, così necessario, quel fottersene del tempo meteorologico e di quello irreversibile dell’orologio. Chi di noi non ha sentito il desiderio di accasciarsi per strada, come marionetta, gambe larghe sull’asfalto, testa reclinata sul guanciale di un muro? E lasciare al fiume il suo grande, impegnativo corso. Venirne fuori, venirne in pace. Tacito brandello di carne umana sul selciato dell’umanità. Perché i barboni sono come certi cani, ti guardano e vedi la tua faccia che ti sta guardando, non quella che hai addosso, magari quella che avevi da bambino, quella che hai certe volte che sei scemo e triste. Quella faccia affamata e sparuta che avresti potuto avere se il tuo spicchio di mondo non ti avesse accolto. Perché in ogni vita ce n’è almeno un’altra».

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