Covid e fiducia nella scienza
Consenso degli esperti indicatore di verità

«Fermare lo shutdown», «I modelli sono tutti sbagliati». Sono gli slogan dell’ultimo esempio di negazione dei risultati scientifici, le manifestazioni tenutesi, nelle scorse settimane, in molti Stati americani e incoraggiate da Donald Trump contro i governatori restii ad allentare le misure restrittive per arginare la pandemia.

Lo stesso presidente, com’è noto, nega la scienza del clima e ha spinto gli Stati Uniti fuori dall’Accordo di Parigi per ridurre le emissioni antropiche di gas serra e il conseguente riscaldamento globale. Un antidoto o, visti i tempi, un vaccino contro la denigrazione della scienza è il libro di Naomi Oreskes, «Why Trust Science?», «Perché fidarsi della scienza?», frutto di lezioni dell’autrice nel 2016 e pubblicato negli Stati Uniti da Princeton University Press (pagine 376). Di lei, docente di Storia della scienza e Scienze della Terra, è uscita l’anno scorso la traduzione italiana di un testo del 2010, vigoroso e accuratamente documentato, «Mercanti di dubbi. Come un manipolo di scienziati ha oscurato la verità, dal fumo al riscaldamento globale», firmato con Erik M. Conway (Edizioni Ambiente, euro 24). L’auspicio è che la nuova opera non debba aspettare ancora un tempo così lungo per essere disponibile nella nostra lingua.

Oreskes, nell’ultimo libro, offre una difesa convinta e appassionante della scienza, rivelando perché il carattere sociale della conoscenza scientifica sia il motivo principale per cui possiamo fidarcene. Ripercorrendo la storia e la filosofia della scienza dalla fine dell’Ottocento ad oggi, la studiosa americana spiega come il tipo di conoscenza prodotto non sia inconfutabile e garantito. Già Popper, del resto, insegnava che la scienza conserva sempre un carattere ipotetico e congetturale, quindi può essere superata da controlli futuri. L’attendibilità delle tesi scientifiche deriva dal trasparente processo sociale, come la «peer review», attraverso il quale sono rigorosamente controllate. La scienza può sbagliare ma, dai propri errori, trae lezioni essenziali. Oreskes mostra come il consenso sia un indicatore cruciale di quando è stata risolta una questione scientifica e quando è probabile che le conoscenze prodotte siano affidabili. Il 97 per cento degli studiosi del clima concorda sull’origine antropica del riscaldamento globale e dei connessi cambiamenti climatici. Il dissenso in merito è così minoritario da essere irrilevante. E come tale è da considerare da parte dei media. Se così non avviene, spiega Oreskes, confermando l’assunto del libro precedente, si deve ai «mercanti di dubbi» che, perseguendo interessi economici, «fabbricano» dati e ipotesi contrari a ciò su cui la maggioranza scientifica ha già raggiunto un sostanziale accordo.

L’autrice dimostra come, per primo, un gruppo di fisici, già al vertice dell’apparato militare statunitense, negli anni Cinquanta del secolo scorso mise la propria autorevolezza a disposizione dell’industria del tabacco, per aiutarla a fronteggiare le prime evidenze della pericolosità del fumo sulla salute. Le stesse strategie di disinformazione furono messe in atto per la tossicità dell’insetticida noto come ddt, le piogge acide provocate dai combustibili fossili, il buco nell’ozono determinato dai clorofluorocarburi, fino al riscaldamento globale. L’obiettivo delle campagne succedutesi nel corso del tempo non è imporre, essendo indimostrabili, tesi scientifiche alternative rispetto a quelle su cui vige un amplissimo consenso, ma creare confusione, ritardare indefinitamente le decisioni politiche necessarie, rallentare l’adozione di norme che possano pregiudicare i profitti dei settori imprenditoriali coinvolti nelle produzioni nocive. Insomma, spingere all’inazione.

Naomi Oreskes indica come distinguere le fonti attendibili da quelle false, un’opera oltremodo meritoria in questi tempi in cui separare il grano dal loglio, nel marasma dei siti web e dei social grondanti «fake news», è un’impresa sempre più ardua, ma ancor più doverosa. Soprattutto per i professionisti dell’informazione.

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