D’Aniello: «Racconto i Modena City Ramblers: musica e cuore della mia band»

Il flautista e co-fondatore del gruppo folk-rock nel suo libro «E alla meta arriviamo cantando» narra trent’anni di canzoni e viaggi: «Ho seguito il filo della nostra lunga avventura, ripercorrendo le emozioni provate nel tempo».

Per una volta le parole della quarta di copertina parlano chiaro: «Noi, che eravamo emiliani, cresciuti nella rossa opulenta Emilia, che provavamo a fare un po’ i ribelli, un po’ gli irlandesi, ma che poi la domenica non rinunciamo ai tortellini, perché non sia mai che la rivoluzione la facciamo a pancia vuota». Il libro di Franco D’Aniello «E alla meta arriviamo cantando» (La nave di Teseo) racconta per la prima volta l’avventura dei Modena City Ramblers, il gruppo folk-rock di cui l’autore è stato co-fondatore. Le storie, i viaggi, la musica di una band che in trent’anni ha attraversato la storia del Paese, l’ha difesa caparbiamente, seguendo una geografia umana e politica di massima coerenza. Il libro non è una biografia, D’Aniello ha inteso intessere una tela di ricordi, tanti racconti che vanno a completare il quadro di un lungo cammino condiviso.

«È la mia visione di questi trent’anni- spiega l’autore, il flautista dei Modena-, di quello che abbiamo provato viaggiando, suonando, incontrando gente. Avevo voglia di scrivere un libro del genere da tanto tempo. Anzi, più che altro avevo voglia di scrivere. E durante il fermo dei concerti, durante la pandemia, mi sono soffermato sui ricordi, ordinandoli in qualche modo. Così ho scritto una serie di capitoli dedicati ai viaggi, agli incontri e non solo. Volevo raccontare quel che ho provato nel tempo, seguendo il filo della lunga avventura di gruppo. Molte delle sensazioni raccontate sono condivise; i fatti sono oggettivi, gli incontri sono accaduti davvero. Certo ho elaborato i miei pensieri nel libro: una sorta di diario di bordo».

I Modena City Ramblers si portano appresso un senso della condivisione fortissimo, all’interno e all’esterno del gruppo, con un pubblico che ormai è multigenerazionale. Avete una storia condivisa con tanta gente, tanti musicisti, a latitudini diverse. È questa la chiave del vostro successo popolare?
«Spero che questo emerga dai racconti. Non siamo di quegli artisti che vanno, suonano, salutano e se ne vanno. Abbiamo fatto quasi duemila concerti e credo che sia capitato solo qualche volta. Nelle altre si è creato un clima diverso. C’è una parte del nostro pubblico che viene prima del concerto, si ferma a far due parole, a bere una birra con noi dopo le prove. La condivisione c’è in ogni modo. Poi ci sono i viaggi particolari e lì scatta una condivisione che segna di più. Essere andati in Chapas, con tutto che nessuno ci conosceva, è stato importante. È nata subito un’empatia con la gente di là. Gli ideali e la musica uniscono».

C’è una geografia dei Modena. Da una parte nel nome che identifica delle radici, e poi data dai viaggi: una geografia ampia che va dall’Irlanda al deserto del Sahara algerino, dal Mediterraneo ad Auschwitz, dalla Palestina a Lisbona. Musicalmente un viaggio che va dal folk celtico al punk dei Pogues, alla canzone politica, sociale. Con incontri importanti, da Bob Geldof a Guccini, Inti Illimani, Madredeus, Chieftains, Planxty, Christy Moore.
«È quello per cui siamo nati. Abbiamo una zona geograficamente identificata dal nome, ed è la partenza. Non è un caso che il primo disco l’abbiamo intitolato “Riportando tutto a casa”. Negli anni Ottanta siamo andati in Irlanda a cercare una musica diversa dal pop e abbiamo riportato a casa il folk celtico, ma anche l’attitudine punk di Shan MacGowan. Nel nostro nome c’è l’origine, ma anche la parola “ramblers”, che alla larga sta a dire girovaghi. Abbiamo girato tanto. Ci siamo presi tante influenze, non solo il folk, anche la musica balcanica, il fado, la musica etnica. Le polke che piacciono tanto agli emiliani romagnoli vengono dall’Est, dalla Polonia. Si ballano anche in Irlanda. Noi le suoniamo in modo punk, ma son polke. I viaggi ci hanno permesso di non cristallizzarci su un tipo di musica. Del resto il gruppo è nato come una specie di melting pot, chi veniva dal pop, chi dalla musica etnica, chi, come me, aveva sempre in mano il flautino irlandese, il tin whistle. Se ci sono stati diversi cambi di formazione, non son mai entrati musicisti filologici. I viaggi sono stati solidali, vissuti alla ricerca del contatto anche musicale, quello che unisce le persone. Attraverso la musica anche due persone che parlano lingue diverse riescono a comunicare».

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