Gli 80 anni di Facchinetti da Astino: «La musica? La mia compagna di vita». La festa con i Pooh e la famiglia - Video

POOH E OLTRE. Il musicista giunge al traguardo delle 80 candeline il primo maggio e si racconta in un libro: a scuola con la cartella di legno, i primi maestri, il successo di «Piccola Katy». E il motto: mai accontentarsi. Ora un nuovo disco, film e uno spettacolo teatrale.

Ad Astino è tutto cambiato. Un tempo era un villaggio, con un piccolo campanile, la chiesa, le case attorno, tante famiglie numerose. Anche quella di Camillo «Pinocchio» Facchinetti, con una passione per Collodi nata dall’inclinazione alle bricconate. Non stava mai fermo Camillo: era un bimbetto inquieto. È rimasto tanto tempo in attesa di Roby, l’alter ego diventato grande. Una sera poi è andato a trovarlo, sulle spalle la vecchia e rumorosa cartella di legno, in animo tante domande.

Il villaggio di Astino

Dall’incontro inaspettato, tra sogno e memoria, è nato il racconto autobiografico di Roby

Facchinetti: «Che spettacolo è la vita» (Sperling & Kupfer), 80 anni di storia (è nato il 1° maggio) vissuti con freschezza di cuore. Il piccolo Camillo vuole sentire da Roby quel che non ha mai raccontato: vita, passioni, amori. Un percorso tortuoso, sincero, tra pubblico e privato, affetti e carriera, dalla gavetta degli anni Sessanta al successo inossidabile dei Pooh, amici per sempre. «Quella cartella l’aveva fatta con le sue mani mio padre. È uno dei ricordi che porto con me sin da bambino. Di quella stagione restano le radici: ad Astino sono cresciuto. Attorno c’era una comunità, 8 famiglie, alcune contadine, altre no. Grazie ai genitori ho assimilato i valori che mi hanno accompagnato per tutta la vita. La cartella di legno è un simbolo, ed è importante nella mia vita perché mi ha insegnato una cosa fondamentale. Quando andavo a scuola mi sentivano arrivare da lontano per il rumore che faceva, allora la maestra chiese a mia madre che mi prendesse una cartellina normale come quella degli altri. Cambiammo, io ci rimasi male, ma a sei anni capii che la vita impone delle regole. Quell’oggetto è rimasto dentro me anche oggi che Astino è diventata meta turistica, centro di cultura».

La musica accompagna Camillo sin da piccolo. Mamma Emilia sentiva sempre la radio, adorava Puccini.

«Il passaggio da Camillo a Roby accade col tempo, e tante piccole avventure, anche la morte del mio amichetto Angelo: il primo dolore che ti fa diventare grande. La musica la imparo da tre maestri importanti. I miei mi regalano una fisarmonica, poi un pianoforte. Mi chiamo ancora col mio nome quando inizio a suonare con I Monelli. Gino (Ndr.: Frigeni) ha un posto privilegiato nei miei ricordi, anche ora che se n’è andato. Cambio nome quando inizio a fare la professione, quando esco dall’ambiente familiare. Roby all’epoca funzionava meglio».

In una pagina parla de «la musica che vuole bene», cosa intende dire?

«Sin da ragazzino ho scoperto magicamente che la musica mi regalava qualcosa di fondamentale. C’erano dei passaggi che mi facevano stare bene. Ero piccolo ma sentivo qualcosa di speciale. Nella mia testolina la musica che mi piaceva mi voleva bene. Chi ti vuole bene regala una condizione di benessere, riesce a farti sentire felice».

Un sentimento che s’è portato appresso anche dopo, quando ha iniziato a scrivere musica, canzoni?

«Certo. La musica poi è diventata una compagna di vita. Mia madre l’aveva capito che per me era fondamentale. Mi porta dal maestro Ravasio, poi dai fratelli Bergamelli, da Sala, l’ultimo maestro che mi ha seguito. Volevo fare musica, il richiamo era forte. Non ci dormivo. All’oratorio di Longuelo giocavo a pallone, ma di punto in bianco interrompevo la partita se dovevo studiare il brano da portare al maestro. Dovevo impararlo e non c’era altro che contava di più. La musica era in cima a tutte le mie classifiche e continua ad esserlo».

Prima strumentista, alla fisarmonica, alle tastiere, poi scopre la voce, inizia a cantare al tempo di «Brennero ‘66». L’orizzonte si allarga, un’altra avventura, quella vocale.

«La magia di ogni strumento sta nella possibilità di trasmettere il suono, qualcosa che arriva all’altro. Attraverso il suono comunichi. Alla voce non ci facevo caso sebbene avessi sempre cantato nel coro in chiesa. A un certo punto però ho cominciato a riflettere sullo strumento voce. Da “Dio delle città” in poi ho lavorato molto sull’aspetto vocale, sulla comunicazione attraverso la vocalità. Ho capito che avevo quel quid che serve. Non basta avere solo una bella voce».

La storia è costellata d’incontri: I Monelli, Pier Filippi e Les Copains, Valerio Negrini, i Pooh. «Piccola Katy» è il primo grande successo, ma a cambiarvi la vita è Giancarlo Lucariello.

«È lui che ci fa capire che la squadra viene prima di tutto. I Monelli mi avevano sdoganato a livello nazionale, ma il mestiere era ancora tutto da imparare. Lucariello ha fatto fare ai Pooh il salto di qualità. Con la casa discografica Vedette avevamo inciso il primo album “Per quelli come noi”, due anni dopo, nel ’68, avevamo lanciato “Piccola Katy”. Con “Mary Ann” facemmo il nostro primo Cantagiro. Nel 1970 scrivemmo l’album “Memorie”, abbastanza pretenzioso. Seguiva la moda dei concept album. Volevamo uscire dagli schemi, ma il disco non ebbe presa. Il successo di “Piccola Katy” stava scemando e noi eravamo entrati in crisi. Le band di allora costavano tanto: avevano necessità di un impianto voci, microfoni, amplificatori, di tutti gli strumenti, di un furgone per i trasferimenti. Per procurarsi le attrezzature bisognava firmare un sacco di cambiali. Tante band si perdevano. Anche i Pooh stavano rischiando, quando arriva una chiamata a casa di mia madre, era Lucariello. Quella telefonata ci ha cambiato la vita».

Di certo quella professionale.

«Giancarlo ci ha insegnato tutto, non sapevamo granché del mestiere. È riuscito a farci capire che le regole contano più di ogni altra cosa. Niente donne e compagne in studio o in tour, il gruppo deve stare concentrato sulla musica, presentarsi in pubblico in un certo modo. Con lui abbiamo capito le dinamiche interne ed esterne al gruppo. È lui che ci ha strutturato per durare. Ancora oggi seguiamo le sue regole. Siamo puntuali, ci dividiamo il lavoro per competenze. Io avevo la responsabilità della scrittura, Dodi degli arrangiamenti, Stefano era un perfetto organizzatore, Red il comunicatore».

Quando arriva «Parsifal» i Pooh sono già affermati. Quell’album le cambia la prospettiva?

«Con quel disco abbiamo dato un’altra idea della nostra musica. Il percorso da allora è cambiato, ancor oggi facciamo i conti con quella suite. Dimostrammo che i Pooh erano capaci di andare oltre la canzone. “Parsifal” apre altre vie musicali».

Tanti viaggi, altrettante lezioni di vita, poi si torna a casa, da una famiglia allargata, carica di affetto. Cinque figli, sette nipoti, Giovanna, la compagna della vita.

«Ho avuto una vita professionale fitta, ma quasi per miracolo sono riuscito a costruire e a serbare unita la mia famiglia. Un approdo sicuro ci voleva. Sono cresciuto in una realtà familiare matriarcale dove i valori si tramandavano. Mio nonno voleva tutti a tavola. Anche a me piace avere figli e nipoti attorno. Quello della famiglia è un valore che mi sono portato dietro da quando ero bambino e avevo quella cartella di legno chiassosa. Ritornare a casa dopo le tournée è tornare alle radici, nella mia città, tra la mia gente. Ho viaggiato in posti magici, ma mi sento a casa qui a Bergamo».

Sua mamma le diceva «non accontentarti mai»: un consiglio seguito?

«Sì, non sono mai contento delle cose che faccio, anche quelle in cui metto l’anima. Alla fine penso sempre che avrei potuto dare di più. Poi se ci sono riscontri tangibili capisco di aver fatto per il meglio. Il successo dà un senso vero al lavoro che fai».

Al di là della musica ha una sua hit parade personale?

«I successi più grandi sono i miei figli: Alessandra, Valentina, Francesco, Roberto, Giulia. Poi c’è mia moglie, una compagna di vita eccezionale, mamma fantastica, ora nonna. A lei non piace apparire, preferisce stare un passo indietro. Ha capito il mio lavoro, quel che rappresenta per me, non era scontato».

Il libro parla anche di amici perduti, di «Rinascerò rinascerai» che focalizza l’impatto drammatico della pandemia. Del vuoto incolmabile che lascia Stefano. C’è un filo che lega il passato al futuro di «Parsifal», l’opera che verrà.

«L’altra sera abbiamo chiuso i missaggi. L’impegno è stato monumentale. Sono felice. L’opera avrà un percorso al contrario: prima escono libro e disco, poi arriva il film, più tardi penseremo all’allestimento teatrale. Stefano ha scritto un libretto straordinario, rendendo più moderna la storia. Il titolo è appunto “Parsifal Opera Nuova”».

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