La storia di Bergamo nelle fotografie di Emilio Moreschi

Preziosi archivi. Presentato al Centro congressi il volume di immagini degli anni ’70 di Emilio Moreschi. La passione amatoriale, i circoli fotografici in città, le relazioni con la grande fotografia internazionale.

L’ultima istantanea del mondo perduto descritto nel suo libro la scatta lui, Emilio Moreschi, dal palco: «Molti di questi paesi adesso sono anche più belli di allora, negli ultimi decenni sono stati sapientemente restaurati: però non c’è più nessuno. Una volta erano pieni di bambini, che facevano la loro gioia».

La presentazione del volume «Dalla montagna alla città» (Centro Sudi Valle Imagna: grande qualità editoriale, hanno sottolineato tutti), nella Sala Oggioni del Centro congressi, ieri mattina, è stata un po’ un ripercorrere una sessantina d’anni di storia bergamasca, ma anche il ritrovarsi di vecchi e nuovi amici: come ha detto Paolo Valoti, presidente del Cai bergamasco, «oggi è soprattutto una festa con la quale dobbiamo dire grazie a Emilio. Per le sue immagini e per tutto quello che ha fatto per la cultura della montagna. La sua è un’opera di storia».

Introdotti da Antonio Carminati, direttore del Csvi, hanno portato i loro saluti Nadia Ghisalberti, assessore alla Cultura, Carlo Mazzoleni, presidente della Camera di Commercio e della Fondazione per la Storia economica e sociale di Bergamo, Giorgio Locatelli, presidente del Centro Studi Valle Imagna, Marco Ghisalberti, consigliere delegato della Fondazione Bergamo nella Storia. E poi via alle osservazioni sulla fotografia e sulla persona di Moreschi di Roberto Sestini, l’avvocato Ettore Tacchini, i fotografi Alfonso Modonesi e Gianni Limonta, la direttrice scientifica della Fondazione Bergamo nella Storia Roberta Frigeni.

L’avvocato Tacchini, «scelto fra i molti amici fraterni di Emilio», ha ricordato i loro primi incontri: «Abbiamo subito trovato un’intesa di idee, di interessi. Sono stato io a organizzare la sua prima mostra, in via Ghislanzoni, con il Cai. Qualcuno, parlando di Moreschi, ha usato l’espressione “uomo del Rinascimento“, ed è vero», è certamente un uomo dagli interessi quanto mai vari, dalla curiosità immediata nei suoi esordi e poi tenace nel tempo. Uso a condividere con gli amici «dalle cose più modeste alle cose più elevate. Che non ha mai modificato un certo suo aspetto di umiltà, e la capacità di intessere rapporti con la gente», che fossero a capo di qualche importante impresa oppure dei taglialegna raggiunti nel bosco durante una pausa del lavoro, o bergamini alle prese con la caldera piena di latte fumante - come testimoniano le sue foto.

Immagini «amatoriali», nel senso pieno del coinvolgimento affettivo e quasi «privato» con i soggetti ritratti. E tuttavia anche «professionali» per la serietà dell’impegno tecnico, lo studio, la selezione. Preziosamente documentali - hanno detto tanti -, una intelligente attività di «registrazione» di un mondo che negli anni ’70 del ’900 davanti all’obiettivo mandava i suoi ultimi lampi di luce prima di spegnersi.

Ma quando Tacchini paragona il suo lavoro - esemplarmente compendiato in questo nuovo testo, che contiene una serie di saggi e di riflessioni importanti - ai tre celebri volumi di Pepi Merisio dedicati alla sua «Terra di Bergamo», e quando Roberta Frigeni giunge all’acme delle laudationes ufficiali Moreschi abbandona il tono autocelebrativo del distintissimo panel e tira fuori la sua vera e genuina tempra: «Adesso non dobbiamo fare dei “santini”: abbiamo fatto anche degli errori! Ricordo che Gianni Limonta, quando vedeva uscire le mie stampe dalla sua camera oscura, per mesi è andato avanti a dirmi di buttarle tutte: non gliene andava bene una. Mi ha distrutto. Certo però, questo mi ha aiutato a migliorare».

Alfonso Modonesi ha offerto un contributo importante sulle origini della fotografia di reportage, la cui culla fu nella cultura americana dei primi anni ’30, momenti di crisi sociale devastante, seguita al crollo di Wall Street del ’29. Ha ricordato «l’esperienza della Farm Security Administration: con grandissima saggezza e lungimiranza il presidente Roosevelt chiese ai migliori fotografi di allora Dorothea Lange, Walker Evans & C. - di raccontare la vita americana com’era». Da allora la fotografia non è più stata (solo) ritratto borghese, o mimesi della pittura, e neppure mera documentazione storica ma «esperimento» di antropologia vivente.

Bergamo non è un’isola. Modonesi ha fatto capire i legami con un passaggio cruciale della storia del ’900: «In Italia furono cinque le città che proseguirono questa storia del reportage, e fra queste, dopo Milano e Venezia, c’era certamente Bergamo». Ha ricordato «negli anni ’60 il Circolo fotografico bergamasco guidato da Mario Finazzi e da Pepi Merisio, con Della Vite, Leidi, Brambilla». Negli anni ’70 nasce invece «Camera 9 nello studio di Gianni Limonta: e uno di quei 9 era proprio Moreschi. Guardando questo tuo ultimo libro, Emilio, i padri della fotografia ti direbbero: “Questo fotografo sa scrivere con la luce”».

Ma - sottolinea Modonesi - «il fatto nuovo di questi anni è il Museo della fotografia: io ne ho visti tanti all’estero, e posso dire che è uno dei più importanti». Roberta Frigeni ne ha ripercorso il tragitto, sotto la «silenziosa ma attivissima» attività di recruiting (affiliazione) proprio di Moreschi, impegnato nell’«ampliamento dell’archivio fotografico Sestini», gia ricco: se è vero, come dice Sestini stesso, che «il museo ha la funzione di tramandare nel tempo un enorme patrimonio di immagini» destinate agli storici di domani, è «grazie alle relazioni di Moreschi in città, sia con le famiglie sia con le istituzioni pubbliche, che 16 fondi fotografici sono stati piano piano consegnati al museo, come dono o come deposito», dice Frigeni: «Dal Fondo Asperti ai Viaggi Lorandi, dalle immagini di Tito Terzi e Bulgarella allo stesso Modonesi, al «salto di qualità» del ’19 con l’ingresso nelle raccolte di Pepi Merisio. E poi ancora il Fondo Goglio arrivato dalla Provincia, quello storico della Camera di Commercio, quelli delle famiglie Marieni Saredo e Schwamenthal. Anche Pino Capellini farà confluire le immagini della Fototeca bergamasca - con lungimiranza immaginata 50 anni fa - nei fondi del Museo. E non è finita qui: Ermanno Gamba in chiusura ha segnalato una raccolta (corposa) di foto di inizio ’900, pare molto promettente: l’archivio del vecchio «Giornale di Bergamo».

Il foto-libro di Moreschi - il 16° del Centro Studi Valle Imagna - per il momento è in vendita alla Libreria Palomar di via Angelo Mai,10. Verrà messo in distribuzione nei prossimi giorni - ha detto Carminati. Che ha annunciato di averne «altri due pronti per la stampa», in attesa di sponsor: «Il primo è di Pepi Merisio “Nel segno dell’Arcangelo”: un grande libro costruito da Pepi stesso prima di lasciarci. Il secondo è di Alfonso Modonesi, “Praga 1968”, che purtroppo è tornato improvvisamente di attualità con l’invasione russa di un altro paese dell’Est».

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