Maurizio Carucci: «Un cd col mio respiro per colmare il vuoto»

Il concerto. Il frontman degli Ex-Otago il 1° settembre al «Bum bum festival» di Trescore con il suo primo album da solista.

Al telefono ha il fiato corto: «Sono in vigna, sto facendo vendemmia e fa ancora caldo». Siamo già in tema di «Respiro». Maurizio Carucci ha il cuore nelle canzoni, i piedi ben piantati sul terreno. In alta Val Borbera segue la sua piccola azienda agricola e lì, da frontman degli Ex-Otago in libertà, ha scritto le canzoni del suo primo album solo. Senza gli altri, in completa autarchia. Un disco realizzato a contatto con la natura, a partire da un disagio interiore dettato da questi anni, dal rapporto con la musica, dal desiderio di riconquistarla, ma dal lato di una visione del tutto personale.

Gli Otaghi ci sono ancora, ma Carucci stavolta balla da solo, anche in tournée. Fa tappa giovedì 1 settembre al «Bum Bum Festival» al Parco Le Stanze di Trescore (inizio ore 21.30; ingresso libero) e vale la pena di ascoltarlo dal vivo perché le canzoni di «Respiro» raccontano al meglio la sua identità. Sono nate dall’urgenza di dare risposte, a chi le ha scritte, in uno spazio d’intimità che le ha rese estreme, angolose. Maurizio s’è preso una boccata d’aria, e un momento di ripensamento: sulla musica, l’esistenza. Il disco ha un carattere salvifico, per lui, per tutti noi.

«È un lavoro nato per fare del bene a me –spiega –. Avevo bisogno di indicazioni sul mio presente, magari anche sul futuro. Ho sentito la necessità di praticare un po’ di solitudine. Vivo in due gruppi, ormai da tantissimi anni: gli Ex-Otago, da una parte, Cascina Barbana, un collettivo agricolo, dall’altra. In questi ultimi tempi mi sono ritrovato a non sapere più chi fossi. In una situazione del genere è possibile perdere l’orientamento. In un gruppo è tutto mediato. Da un’idea tua può nascere qualcosa di molto più grande e articolato. Arrivi in luoghi immaginari o fisici che non avevi neppure pensato. Ma a quarant’anni, complici tante situazioni, la pandemia, la morte prematura di un giovane amico, ho cominciato a traballare. Non ho retto il colpo. Il disco mi ha aiutato a sopportare le fatiche; la musica mi ha salvato. Era già accaduto. Ho provato a ritrovarmi, a capire chi fossi in realtà. Quando hai una medicina che ti fa star meglio, alla fine la usi per curare tutto. Fare musica da solo mi ha aiutato a capire cosa sono diventato».

È possibile che questo album somigli di più alla comunità della Val Borbera, a certi elementi della natura, il silenzio, le stagioni, il «Fauno» che protegge campi e greggi?

«Senza dubbio sì. Un disco scritto da me, suonato interamente da me, registrato in solitudine, è chiaro che ha a che fare più con la terra, la natura, con i suoni del bosco. Anche se qualcosa di queste atmosfere si ritrova anche nei pezzi degli Otaghi che ho scritto. Queste canzoni corrispondono più a me. Sono stato libero di raccontare quel che sentivo. “Respiro” è un disco con molti spigoli estetici, molte canzoni le ho prodotte io, i pianoforti un po’ sbilenchi sono tutti suonati da me, registrati a casa, col mio pianoforte. Non è nato con l’obiettivo di arrivare a tanta gente, e dimostrarsi pop».

Per certi versi è un disco estremo.

«Effettivamente ha le sue estremità. Forse non lo rifarei più un disco così, e meno male: vuol dire che ha funzionato. Avevo bisogno di farlo per colmare un vuoto. “Respiro” ha riempito tutti i vuoti che avevo».

In questo disco l’interiorità si muove all’interno di un tracciato, di un respiro prima di tutto spirituale. Lo suggerisce la natura, la terra, l’aria. C’è un cammino di ricerca?

«Nella maniera più assoluta sì. L’album si chiama “Respiro” per mille ragioni. Coltivo la mia spiritualità da tanti anni. Sono in cerca di qualcosa. Non sono cattolico cristiano, ma sono religioso, avverto il senso dell’esserlo. Se emerge dal disco sono contento: è un percorso che sto affrontando».

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