«La paura, le visite, le cure: ma il tumore si può vincere grazie alla prevenzione»

LA STORIA. Federica Arzuffi di Stezzano ha superato la malattia. «E ora sono entrata nelle Pink ambassador».

«Senza rinascita – scrive la poetessa Maria Zambrano – niente è del tutto vivo». Ogni metro della strada percorsa per uscire da una situazione di malattia e di dolore costa molto e ha un valore immenso: lo si legge nello sguardo e nel sorriso di Federica Arzuffi, 37 anni, di Stezzano, che quattro anni fa ha scoperto di avere un tumore, ha affrontato con coraggio un intervento chirurgico invasivo e le terapie, poi ha saputo trasformare la sofferenza in carburante per aiutare gli altri.

Ha sostenuto le attività di Acto (Associazione contro il tumore ovarico) all’ospedale «San Gerardo» di Monza, dove è stata curata, raccogliendo fondi per il progetto di psico-oncologia. Poi si è unita al gruppo delle «Pink ambassador» di Bergamo, testimonial della prevenzione e della ricerca per la Fondazione «Umberto Veronesi».

La sua vita era serena, in piena corsa, proiettata verso il futuro, quando si è presentata all’improvviso la malattia, come una brusca battuta d’arresto: «A settembre del 2018, al ritorno da una vacanza al mare, mi sentivo la pancia un po’ gonfia. È un sintomo banale, non pensavo di dovermi preoccupare. Poi però sono comparse perdite anomale tra un ciclo e l’altro, sempre più abbondanti. All’inizio ho trovato una giustificazione anche per quelle. Ho rimandato più volte la visita medica, perché avevo paura. Ne ho ancora, ogni volta che devo sottopormi a un esame, ma ho capito che è normale, conosco molte altre donne che si comportano così. L’esperienza mi ha insegnato che bisogna superare i timori e non saltare mai i controlli, perché la prevenzione salva la vita».

La scoperta del polipo

Quando poi si è rivolta a un ginecologo, infatti, ha scoperto di avere un polipo nell’utero: «Sono andata all’ospedale di Seriate per asportarlo, ma dall’esame istologico è risultato che c’erano cellule maligne. Mi hanno diagnosticato un cancro all’utero, e mi è crollato il mondo addosso». Ci sono stati altri accertamenti: «L’obiettivo era capire quanto fosse grande la lesione e come fosse meglio procedere. Da Seriate i medici che mi seguivano mi hanno poi consigliato di rivolgermi al “San Gerardo” di Monza, specializzato in questo tipo di tumori».

L’idea di dover subire l’asportazione dell’utero all’inizio l’ha gettata nello sconforto: «È un organo che segna l’identità, permette di sentirsi donna al cento per cento, dà la possibilità di diventare madre, e io desideravo avere dei figli». Ha dovuto fare pace con questo pensiero, perché la cosa più importante, in quel momento, era salvarle la vita. «Su questo non ho avuto dubbi, ho scelto la strada più sicura per la mia salute e non me ne sono pentita. Mi sono resa conto con fatica e con dolore che avrei potuto realizzare il mio desiderio di maternità in altri modi. Come educatrice sono quotidianamente a contatto con i bambini, e in futuro chissà, potrei pensare all’adozione».

Ha affrontato sei cicli di chemioterapia per ridurre la massa nell’utero: «Ho reagito bene ai farmaci e questo mi ha dato fiducia, così ho affrontato in modo positivo l’intervento chirurgico: i medici hanno tolto l’utero mantenendo le ovaie, data la mia giovane età: un risultato importante, che mi ha evitato altri effetti collaterali».

I cambiamenti da affrontare

Affrontare i cambiamenti fisici che la malattia comportava non è stato sempre facile: «Avevo i capelli lunghissimi. All’inizio ho fatto un taglio corto, perché mi hanno detto che non era sicuro che con la chemio dovessero cadere, poi purtroppo li ho persi. Mi sono comprata una bellissima parrucca, che però ho usato davvero poco, perché era estate e faceva molto caldo. Era modellata come un caschettino moro, perché avevo tagliato i capelli così, ma si vedeva che non erano i miei, perché era molto folta, sempre pettinata, perfetta. Forse avrò l’occasione di donarla a qualcuno che ne ha bisogno. Le ho dato un nome, si chiama Magda, preso da un personaggio di un film di Verdone».

Per Federica l’ironia è stata in ogni momento un’arma importantissima: «Bisogna trovare dei modi per sdrammatizzare, mi ricordo che quando il medico mi ha fatto lo schizzo del tumore per spiegarmene la posizione poi l’ho colorato con gli acquerelli, decorandolo con un po’ di bolle. Una piccola opera d’arte, l’ho conservata per ricordo». Agli amici ne ha parlato per gradi: «Non volevo entrare a gamba tesa nelle loro vite, e magari sconvolgerli e dare un pensiero in più, perciò ho aspettato».

È stata operata il 29 settembre del 2019, un venerdì mattina: «Avevo una cicatrice importante, ma non appena sono riuscita ad alzarmi sono stata circondata dall’affetto dei miei amici e della mia famiglia, che hanno alleggerito le giornate in ospedale. Non vedevo l’ora di tornare a casa e di riprendere le mie attività abituali».

Così Federica ha trovato una nuova consapevolezza e attenzione, che l’hanno portata a cogliere la bellezza che aveva intorno: «Il periodo di convalescenza dopo l’operazione e prima che riprendessi il lavoro è stato uno dei più belli della mia vita. Ho scelto di tornare per un mese dai miei genitori, per riprendere le forze. Avevo una cicatrice di 14 centimetri e temevo di provare dolore, di non farcela da sola, e loro mi hanno accolto con affetto, circondandomi di attenzioni. Ho voluto organizzare qualche giorno di vacanza da trascorrere tutti insieme in montagna, a Castelrotto, in un posto stupendo in mezzo alla natura. È stato bellissimo, mi sono sentita felice e coccolata. Ho apprezzato moltissimo il tempo trascorso insieme, che mi ha aiutato sicuramente a guarire». Accanto alle ferite fisiche, infatti, c’erano anche quelle psicologiche, affettive, un nuovo rapporto da instaurare con se stessa e il suo corpo.

Rispettando i suoi tempi, Federica ha iniziato una nuova vita, vivendo di nuovo nella sua casa, in compagnia delle sue gatte, Minou e Miss Tiger: «Sono tornata a lavorare a gennaio, poi ci sono state comunque lunghe pause a causa del Covid, ma ero già tornata quella di prima». Non ha avuto più bisogno di terapie, ma solo di controlli regolari: «All’inizio erano più frequenti, ogni quattro mesi, ora basta una volta all’anno. I primi mesi sono stati i più difficili, era ancora forte il timore di una recidiva, poi, col tempo, ho imparato a convivere con questa condizione di incertezza con maggiore serenità, anche se quando si avvicina la data dei controlli è sempre un dramma».

Le giornate sempre piene

Le giornate di Federica sono dense, perché da sempre porta avanti due lavori: al mattino fa l’educatrice, la sera si trasforma in insegnante di fitness e hip hop. Sono le sue grandi passioni. «Penso che lo sport sia fondamentale per la vita di tutti, per vivere bene ma anche per salvaguardare la salute. Dopo l’intervento ho iniziato a dargli un’importanza se possibile ancora più grande. Una persona ben allenata affronta meglio avversità e terapie, questo l’ho sperimentato nel mio percorso. La passione per l’hip hop è nata quando ero ancora bambina, il mio primo approccio con lo sport è stato questo: il ballo. Poi ho provato a giocare a pallavolo, che è uno sport molto caro a mio padre, ma ho capito che non era adatto a me. Mi piacciono comunque diverse discipline sportive, anche quelle individuali come l’atletica leggera: favoriscono la nascita di nuovi legami e sono d’aiuto anche sotto molti altri aspetti. Da bambini, per esempio, lo sport insegna a gestire gli spazi, i tempi e a collocarsi bene in mezzo agli altri. Da adulti contribuisce a mantenere vive relazioni che aiutano nei momenti brutti e permettono di condividere i momenti felici, moltiplicandone il valore».

Le «Pink ambassador»

È entrata nel gruppo delle «Pink ambassador» quasi per caso: «Seguivo sui social Giulia Cirelli, che faceva parte del gruppo e con i suoi post creava attenzione e sensibilizzazione sui temi legati alla ricerca sui tumori femminili. Un giorno le ho mandato un messaggio di complimenti e lei mi ha chiesto: “Perché non vieni ad allenarti con noi?”. Così mi sono buttata in questa avventura. Per me la corsa era una disciplina nuova, e non mi sarei mai aspettata di riuscire a coprire la distanza di una mezza maratona. Condividere un percorso di questo tipo, fatto anche di fatica, sudore e tanti chilometri con altre donne rafforza e unisce. Ho scoperto quanto fosse bello poter parlare liberamente delle proprie preoccupazioni, sapendo di non essere sola. Abbiamo partecipato a corse che si svolgevano in posti magnifici, come Venezia e Roma. Quest’anno non mi sono iscritta al progetto per fare spazio ad altre, ma si rimane “Pink ambassador” per sempre: continuiamo a vederci e ogni tanto ci alleniamo insieme».

Federica quest’anno si occupa di bambini con disabilità della scuola dell’infanzia, fra tre e cinque anni: «Anche nel lavoro e nella vita personale l’esperienza della malattia ha lasciato un segno profondo. Mi sono resa conto di essere diventata più sensibile alla fragilità. Quando qualcuno viene a sapere la mia storia spesso mi racconta qualcosa di sé o della sua famiglia per offrirmi supporto o incoraggiamento. Così ho scoperto che ognuno ha la sua storia difficile, anche persone che non sospettavo».

Dopo aver affrontato il tumore, Federica ha sentito il desiderio di aiutare altre persone come lei: «Prima ho pensato all’associazione Acto, perché era attiva nell’ospedale dove sono stata curata e ho apprezzato moltissimo la presenza dei volontari, che passavano con caramelle e poesie e ci aiutavano nelle piccole necessità pratiche, ma soprattutto a tenere alto il morale. Poi il progetto della Fondazione “Veronesi” mi ha aperto gli occhi, mostrandomi che ci sono moltissime donne a soffrire di tumori femminili. Ho capito quanto sia importante la prevenzione da fare anche senza la comparsa di sintomi. Mi sento fortunata, considero la mia vita come un dono, e proprio per questo trovo ancora più importante poter fare qualcosa per gli altri».

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