Valvulopatie, fare screening dopo i 50 anni è importante

CARDIOCHIRURGIA. «Le tecniche mininvasive in cardiochirurgia permettono un rapido recupero post-operatorio, riducono dolore, rischio di infezione e permanenza in ospedale. Conta anche il fattore estetico».

In cardiochirurgia l’approccio mininvasivo ha innovato il trattamento delle valvulopatie. Ne parliamo con il giovane cardiochirurgo senese Samuele Bichi, responsabile dell’Unità di Cardiochirurgia miniinvasiva dell’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo.

Dottor Bichi, quali sono i vantaggi dell’approccio miniinvasivo per il trattamento delle valvulopatie?

«La tecnica maggiormente utilizzata prevede una mini incisione a livello del torace di circa 5 cm (minitoracotomia). A parità di sicurezza, questo permette un rapido recupero funzionale post-operatorio. Il ridotto taglio chirurgico riduce il dolore in sede di incisione e soprattutto il rischio di infezione, minimizza il sanguinamento e la necessità di trasfusioni. Una minore permanenza in ospedale favorisce un più rapido ritorno alla vita normale. Conta anche il fattore estetico. Per alcune categorie di pazienti questo fattore conta molto. Pensiamo ai professionisti del settore della moda e dello spettacolo o agli atleti, anche di livello amatoriale, e agli istruttori sportivi».

Per quale tipologia di paziente è possibile questo approccio?

«Il fattore di esclusione principale è la grave disfunzione del ventricolo sinistro o la presenza di coronaropatie. Detto questo, in un centro con una buona esperienza sono candidabili tutti i pazienti, senza particolari limiti di età».

È possibile fare prevenzione?

«In una patologia che è spesso asintomatica o paucisintomatica, fare screening attraverso una visita cardiologica dopo i 50 anni è importante, specie per chi ha genitori o parenti stretti con valvulopatie o altre cardiopatie. Anche il medico di medicina generale ricopre un ruolo fondamentale perché può riferire precocemente il paziente ad un centro di primo livello in grado di offrire al paziente un’offerta tempestiva a 360 gradi in campo cardiovascolare».

Quanto conta la tecnologia in questo tipo di operazioni?

«La tecnologia aiuta, certo, ma la cardiochirurgia è soprattutto un lavoro di squadra. Il segreto sta nella multidisciplinarietà e nella presenza della cosiddetta “squadra del cuore” (Heart Team). Il rischio zero non esiste, ma la presenza di tante figure qualificate permette di confezionare per ciascun paziente l’intervento più appropriato, minimizzando i rischi. Ciascun caso deve essere discusso collegialmente alla presenza del cardiologo, dell’emodinamista e dell’interventista, del cardiochirurgo, del chirurgo vascolare, del cardio-anestesista e del perfusionista. Per gestire complicanze e comorbidità serve la collaborazione del chirurgo plastico, del reumatologo, dell’oncologo. L’assistenza qualificata si avvale di infermieri in sala operatoria, terapia intensiva e reparto. Penso che questo sia il principale fattore che un paziente deve considerare».

La chirurgia non è l’unica soluzione per il trattamento delle valvulopatie.

«Negli ultimi anni si fa ricorso alle TAVI, valvole impiantate in genere con accesso transfermorale, cioè con la sola incisione all’inguine e quindi con un approccio non chirurgico. Ma questa soluzione non è indicata per pazienti con arterie molto calcifiche, spesso anziani, per l’elevato rischio di ischemie o emorragie. A loro, grazie al dott. Amedeo Terzi, direttore dell’Unità di Cardiochirurgia dei Trapianti e dello Scompenso Cardiaco, proponiamo un approccio “misto”. L’impianto della valvola aortica avviene per mezzo di un catetere dall’apice del ventricolo sinistro. I pazienti possono essere dimessi già dopo 3-4 giorni e i risultati sono di ottimo livello con bassa incidenza di “leak” paravalvolari, dovuti alla non perfetta aderenza della valvola e di impianto di pacemaker».

Un bilancio di questi primi sei anni di attività?

«Quando abbiamo avviato l’attività miniinvasiva, il Papa Giovanni XXIII aveva già una esperienza cardiovascolare di altissimo livello. In questi sei anni abbiamo lavorato in assoluta armonia ed oggi approcciamo in maniera mininvasiva qualsiasi tipo di procedura. Il trend di attività è andato in progressiva crescita, con ottimi risultati. Siamo uno dei primi centri ad aver avviato l’impianto di corde artificiali di ultima generazione, che favoriscono la fisiologica riparazione della valvola. Anche nella chirurgia dell’arco aortico, grazie all’Aortic Team in alleanza con la Chirurgia vascolare, proponiamo se possibile un approccio mininvasivo, sia per pazienti acuti che cronici. Attualmente siamo il primo centro italiano per impianti di Frozen Elephant Trunk, speciali protesi ibride che permettono la sostituzione dell’intero arco aortico in un unico intervento».

© RIPRODUZIONE RISERVATA