Durante l’epidemia di Covid
«errori nella fase di emergenza»

La trasmissione di Rai3 «Presa Diretta» ha mandato in onda una serie d’interviste a medici e infermieri in prima linea la primavera scorsa.

La testimonianza dell’ex direttore medico dell’ospedale di Alzano, Giuseppe Marzulli, ha aperto ieri la trasmissione di Raitre «Presa Diretta» dedicata al tema «C’era una volta la sanità pubblica».

Intervistato dalla bergamasca Francesca Nava, il medico che fino a qualche mese fa è stato a capo del «Pesenti Feranoli» ha ricordato quando ad Alzano, il 23 febbraio 2020, furono trovati positivi i primi due tamponi. Marzulli ha testimoniato (senza alcun contraddittorio, così come tutte le altre testimonianze presentate nel corso della trasmissione) di essere stato lui a decidere, quella domenica, di chiudere l’accesso dell’ospedale ai visitatori e il pronto soccorso, poi riaperto «due ore dopo per ordine dei vertici aziendali e regionali. Era un’indicazione assurda: non c’erano tamponi, nè dispositivi di protezione individuale. Non c’era nemmeno il fattorino che andasse a recuperare tamponi all’ospedale di Seriate, andai io. Recuperai 13/14 tamponi: ne sarebbero serviti 600 per testare tutti i pazienti e il personale. L’ospedale nei giorni successivi diventa un girone dantesco: a un certo punto era rimasto in servizio un solo anestesista, mentre avevamo 100 pazienti Covid ricoverati. Quel medico ha fatto turni di 36 ore filate. L’ospedale, in base a un piano pandemico, anche non aggiornato ma che almeno sarebbe dovuto essere applicato, non era idoneo a ricevere pazienti Covid e non era possibile predisporre percorsi separati: si incrociavano per forza. Eravamo convinti che il giorno dopo sarebbe arrivata la zona rossa in Val Seriana come a Codogno. Invece...».

Lo stesso Marzulli si ammalerà di Covid e resterà malato per settimane. «L’unico obiettivo che ho ora – conclude –, quando finirà l’inchiesta della Procura di Bergamo, è scrivere al presidente della Repubblica e chiedere la medaglia al valor civile per chi tra il personale del Pesenti-Fenaroli si è speso e ha perso la vita in quei mesi: ricordo un’ostetrica, dovetti chiamare anche lei per dare una mano e lei rispose che stava aspettando quella chiamata e che voleva dare il suo contributo. Poi anche lei è morta di Covid. Deve essere riconosciuto il loro sacrificio. Che non ha insegnato abbastanza: dalla prima ondata, non è stato fatto tesoro per fermare la seconda: non è stato fatto tesoro di nulla».

In trasmissione anche la testimonianza di due anestesisti del «Papa Giovanni» - Mirco Nacoti e Pietro Brambillasca - che insieme a un gruppo di medici dell’ospedale di Bergamo a marzo 2020 avevano lanciato l’allarme per denunciare «una situazione sanitaria allo stremo e una gestione sbagliata dell’intera emergenza coronavirus», attraverso le pagine del prestigioso New England Journal of Medicin. Denunciavano e sono tornati a farlo a ottobre, all’inizio della seconda ondata, la necessità di «un massiccio spiegamento di servizi alla comunità, sul territorio. Per affrontare la pandemia servono soluzioni per l’intera popolazione, non solo per gli ospedali: cure a domicilio e cliniche mobili evitano spostamenti non necessari e allentano la pressione sugli ospedali. Ossigenoterapia precoce, ossimetri da polso, e approvvigionamenti adeguati possono essere forniti a domicilio ai pazienti con sintomi leggeri o in convalescenza, un sistema di sorveglianza capillare che garantisca l’adeguato isolamento dei pazienti facendo affidamento sugli strumenti della telemedicina, per limitare l’ospedalizzazione a un gruppo mirato di malati gravi, diminuendo così il contagio, proteggendo i pazienti e il personale sanitario».

Poi Romina Zanotti, infermiera di Assistenza domiciliare integrata: «Abbiamo assistito centinaia di persone, nei primi mesi della pandemia tanti medici di base erano malati, non c’erano medicine, non Dpi, non saturimetri, ma abbiamo cercato di assistere ugualmente. Anche quando il budget regionale si è esaurito, c’è stato chi ha lavorato gratuitamente».

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