IL SUPERBO OMBERTO ALDOBRANDESCHI

11. 58 Io fui latino e nato d'un gran Tosco:
11. 59 Guiglielmo Aldobrandesco fu mio padre;
11. 60 non so se 'l nome suo già mai fu vosco.

11. 61 L'antico sangue e l'opere leggiadre
11. 62 d'i miei maggior mi fer sì arrogante,
11. 63 che, non pensando a la comune madre,

11. 64 ogn'uomo ebbi in despetto tanto avante,
11. 65 ch'io ne mori', come i Sanesi sanno
11. 66 e sallo in Campagnatico ogne fante.

11. 67 Io sono Omberto; e non pur a me danno
11. 68 superbia fa, ché tutti miei consorti
11. 69 ha ella tratti seco nel malanno.

11. 70 E qui convien ch'io questo peso porti
11. 71 per lei, tanto che a Dio si sodisfaccia,
11. 72 poi ch'io nol fe' tra ' vivi, qui tra ' morti».

Virgilio chiede alla schiera dei superbi che procedono chini e affaticati indicazioni sul cammino. Il primo ad accogliere la sua richiesta è l'anima di Omberto Aldobrandeschi; appartenente ad una delle famiglie più antiche e nobili della Toscana era famoso per il suo orgoglio e per l'atteggiamento arrogante nei confronti dei suoi simili. Omberto disprezzava ogni uomo perché aveva dimenticato che tutti hanno una “comune madre”, vale a dire -secondo le più diffuse interpretazioni- Eva o la madre terra: tutti gli uomini infatti, nati da donna, sono figli dello stesso Padre e di conseguenze fratelli. Omberto racconta che fu ricambiato in questo suo odio sprezzante al punto da finire ucciso da una folla inferocita presso Campagnatico, come sa ogni fante, cioè ogni persona dotata di parola (cfr. infante: che non sa ancora parlare). Riconosce che la superbia purtroppo è “un male di famiglia” e che il percorso di espiazione che sta ora compiendo è necessario per pagare il debito lasciato in sospeso durante la vita.

Enzo Noris