Colantuono, Bergamo
e le voci di addio

La voce gira. La sussurrano i blog, ne parlano addetti ai lavori. Prima sottovoce, poi con sempre più convinzione. Stefano Colantuono e l’Atalanta si separeranno, a fine anno. Nonostante un contratto rinnovato meno di un anno fa fino al 30 giugno 2017. Ma ormai pare sicuro: questi saranno gli ultimi mesi di Colantuono all’Atalanta.

L’allenatore romano a Bergamo ha fatto tanto, tantissimo. Gli va riconosciuto. Ma non ci si può nascondere dietro un dito per non vedere quel che sta accadendo: il suo rapporto con una parte dell’ambiente si va logorando. Tra Colantuono e parte della tifoseria non c’è mai stato amore incondizionato (com’è d’altra parte impossibile che sia con qualunque allenatore). Ma adesso le «parti» sono sempre più distanti.

Da un lato chi non ne digeriva alcuni tratti, adesso esagera e non digerisce più nulla. Dall’altro Colantuono erige palizzate d’«autodifesa», fino a spingersi a ripetere, come domenica, «che non è che a Bergamo abbiate mai visto chissà quale calcio». E qui sbaglia. Perché la storia dell’Atalanta non è una storia qualsiasi. S’è vinta una Coppa Italia, s’è giocato in Europa, si son visti campioni, prima che arrivasse Stefano Colantuono a fare – ribadiamo – ottimi campionati.

Adesso si tratta però di fare il bene dell’Atalanta. I tifosi più inclini al mugugno o al «post» ipercritico (Colantuono ha mille «occhi», legge e vede tutto…) devono pensare che a meno di incredibili disastri Colantuono resterà qui fino a fine campionato. E se si vuole il bene dell’Atalanta si può anche cercare di dare una mano a questo allenatore che se si sente «solo» tende ad acuire i toni, ad appuntire gli spigoli.

Sull’altro fronte, Colantuono provi a distendere i nervi. Difficile, vista l’indole guerriera. Però provi a capire che presentandosi dopo Atalanta-Chievo a raccontare di una «partita perfetta fino al 90’» lui stesso non aiuta l’ambiente a volergli bene. Anzi: scatena ridde di commenti che inacidiscono l’aria. Il mondo è cambiato: solo fino a una manciata di anni fa il tifoso non aveva l’arma del «commento». Oggi non è più così e anche allenatori, giocatori e presidenti devono misurarsi con l’inevitabile mancanza di unanimità. Vale per Ancelotti a Madrid, deve valere anche per Colantuono a Bergamo.

Questo perché sarebbe un peccato se questi mesi trascorressero in un clima di reciproco rancore. Bergamo dev’essere grata a Colantuono, e viceversa. Bergamo gli deve gratitudine perché qui non ha mai fallito una stagione, e ha regalato tanti campionati di pura adrenalina e - più spesso di quanto non si dica in genere - anche di calcio di qualità. Ha centrato promozioni e salvezze: sempre gli obiettivi che gli erano stati indicati. Non sempre ha azzeccato la valutazione dei singoli, ma il padreterno in panchina non l’hanno ancora inventato. Tra meriti e demeriti il bilancio non si discute: prevalgono – e di gran lunga – i meriti.

Ma d’altro canto anche Bergamo ha dato tanto a Colantuono. L’ha consacrato come allenatore; l’ha lanciato su panchine che lui riteneva più importanti; l’ha riaccolto dopo un addio difficile da digerire (ma non ipocrita, va detto). Per i bilanci definitivi ci sarà tempo, come per guardare eventualmente all’allenatore del futuro (c’è chi dice Prandelli, chi Donadoni: entrambe piste difficili ma nomi ottimi).

Ma prima c’è da costruire questa salvezza difficile, senza che ambiente e allenatore si lancino occhiatacce a raffica, smorzando questa crescente insofferenza e remando dalla stessa parte. La salvezza deve venire prima di tutto. Poi - se addio sarà - una sincera stretta di mano.

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