«A New York
a lezione dal Nobel»

Silvia Pasini, alzanese, trentunenne, vive a New York dove lavora come ricercatrice presso la Columbia University, dal 2010. Negli anni del liceo scientifico, che ha frequentato presso l’Istituto «E. Amaldi» del suo paese, matura la decisione di iscriversi alla facoltà di Biotecnologie alla Bicocca di Milano «perché – racconta – durante le lezioni del mio professore di Biologia, oltre ad apprendere conoscenze, nozioni e formule, ho respirato l’amore e la passione per questa materia che hanno determinato, così, la mia scelta».

Dopo la laurea specialistica, conseguita con la lode nel 2008, ottiene una borsa di studio ministeriale per il dottorato, della durata di tre anni, con la possibilità di poter frequentare all’estero sino alla metà del periodo stesso, ossia un anno e mezzo. Prende subito in considerazione l’ipotesi di un trasferimento. Destinazione New York, la città che qualcuno ha definito la sorgente del mondo, quel mondo che ti sta addosso e si perde negli orizzonti.

Diversi i motivi che hanno indirizzato la sua preferenza. «Innanzitutto – spiega – lavorare nella prestigiosa Università della Columbia significava acquisire notevole esperienza e conseguire maggiori qualificazioni che avrebbero ricompensato il grosso sacrificio della mia partenza. In secondo luogo per me era indispensabile possedere un’ottima padronanza dell’inglese dal momento che, nel mio contesto professionale, tutto “parla” in questa lingua: articoli, testi, congressi. La mia conoscenza, allora, era invece poco più che sufficiente. Per ultimo ero da sempre affascinata e incuriosita dalla metropoli americana. L’idea era quella di un’enorme, ricca, frenetica città immersa nel caos del traffico; un luogo che, però, immaginavo ricco di stimoli e opportunità. È stato amore “a prima vista”: subito al mio arrivo, mentre dal finestrino dell’aereo si delineava il più famoso skyline del mondo, ho capito di aver preso la decisione giusta».

«Il progetto a cui partecipavo tendeva a stabilire la funzione di un gene, precisamente l’ATF4 nel contesto dell’apprendimento e della memoria. Attraverso esperimenti su topi adulti la ricerca mirava a verificare cosa succedeva nell’animale nel caso in cui il gene non fosse stato espresso, ma silenziato. L’obiettivo a lungo termine era stabilire quanto il gene fosse responsabile in alcune patologie neurodegenerative, come il Parkinson e l’Alzheimer».

«E alla Columbia – prosegue – ho avuto l’occasione di conoscere personalmente e ascoltare i seminari di Eric Kandel, professore di Biofisica e Biochimica, lo psichiatra e neuroscienziato che nel 2000 è stato insignito del premio Nobel per la medicina, in virtù delle sue ricerche sulle basi fisiologiche della conoscenza della memoria nei neuroni».

«All’inizio trascorrevo molte ore in laboratorio in un silenzio quasi assordante, ma il timore di non riuscire a comunicare in modo chiaro e preciso mi tratteneva – ricorda –. Per fortuna il team dei colleghi, molti dei quali stranieri, ripercorrendo il vissuto del proprio arrivo, ha cercato in tutti i modi di coinvolgermi. Il lavoro, poi, mi piaceva, mi prendeva così tanto che spesso vi ritornavo anche dopo cena dove trovavo ad aspettarmi i miei amici topi».

«Sapere che quell’esperienza avrebbe avuto un peso notevole nella mia formazione e nel mio futuro professionale mi rendeva forte e determinata. Stringevo i denti e ripetevo il motto che era diventato il refrain della mia vita in quel periodo: “Silvia, buttati!”. Già al mattino presto, prima di recarmi al lavoro, consultavo il sito “Cosa fare oggi a New York” per scegliere tra le migliaia di proposte e di iniziative. Leggevo tutto quello che mi passava tra le mani e che mi appariva interessante, scrivendo su un’agendina le parole più significative per arricchire il mio vocabolario». La città ha confermato le sue aspettative e si è mostrata, da subito, giovane e dinamica, con una grande energia, quell’energia che Silvia doveva assorbire, fare sua per integrarsi bene e in tempi brevi.

«In questa metropoli, inoltre – osserva – è impossibile non considerare l’aspetto della multiculturalità: i vagoni della metropolitana sono il teatro della più ampia rappresentazione dell’eterogeneità delle persone. Tra una fermata e l’altra salgono e scendono migliaia di individui così diversi, di tante razze e nazionalità. Gli sguardi si incrociano e non ci si sente più soli: paradossalmente la gente intorno ti fa compagnia. Poco prima di rientrare in Italia per il mio dottorato, continua, il mio principal investigator, il mio tutore, mi propose di continuare a impegnarmi nel lavoro di ricerca che avevo intrapreso, ma non concluso. Per me quella richiesta rappresentava un grande attestato di stima e fiducia che mi inorgogliva, oltre che una grossa opportunità da non perdere». Così Silvia, caparbia e risoluta, accetta subito l’incarico scegliendo di terminare il suo progetto e attendere la pubblicazione del lavoro di ricerca. Contava di fermarsi lì ancora un anno, massimo due. Nel frattempo, però, a livello personale, succede qualcosa che Silvia non aveva preventivato, ma che si traduce con il popolare proverbio: «Al cuor non si comanda». S’innamora di Mikin, un ragazzo indiano, che a New York è arrivato all’età di 18 anni per frequentare l’università, la sua stessa facoltà, e che è diventato, poi, suo collega di laboratorio. L’amore, si sa, spesso, scombina le carte e anche i destini. Tanto che nel maggio dello scorso anno i due convolano a nozze nel Comune di Manhattan alla presenza dei colleghi come testimoni; i parenti assistono alla celebrazione dall’Italia e dall’India, via Skype. Silvia, alla domanda su cosa immagina nel suo futuro, rimane in silenzio, pensierosa, per alcuni secondi prima di rispondere. «Se ascolto e faccio parlare il cuore dico che mi vedo in Italia con mio marito, circondata dall’affetto dei miei genitori e da quello delle mie nipotine di cui mi rammarico di non vederne la crescita. Se la risposta è mediata dalla razionalità so che questa ipotesi è, a oggi, troppo remota. Innanzitutto per la realtà lavorativa che, per il momento, da noi mi sembra tuttora incerta. Abituata, poi, agli aspetti pluriculturali della società americana credo che nella nostra nazione ci siano, al momento, ancora troppi pregiudizi e paure nei confronti delle persone che appartengono ad etnie diverse. E Mikin sarebbe uno di loro». Tra qualche tempo, però, un altro cambiamento è previsto nella vita di Silvia e di suo marito: entrambi si trasferiranno a Nashville, nel Tennessee, per lavorare presso la Vanderbilt University. Il primo per ultimare il suo percorso di dottorato che in America dura sei anni, lei per lavorare a una nuova ricerca, sul glaucoma, una patologia dell’occhio. Il viaggio è solo all’inizio.

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