Dalle piste da sci
alla vita in Argentina

Quel bambino di quattro anni che agli albori degli anni Novanta inforcava per la prima volta gli sci - per scendere a spazzaneve dalle piste del Pora - non poteva certo prevedere che le lunghe asticelle dalla punta ricurva alle quali stava fissando quei minuscoli scarponi avrebbero segnato tutta la sua esistenza.

«Lo sci è il filo conduttore della mia vita – spiega Andrea Longhi di Urgnano, classe 1988, da due anni di stanza a Buenos Aires, capitale dell’Argentina –. Ancora oggi, rimane il collante della mia famiglia: torno in Italia ogni tre mesi e – neve permettendo – mi concedo qualche discesa sulle nostre montagne».

Andrea comincia a gareggiare nello «Sci Club Radici Group» a sei anni: mollerà soltanto a metà del percorso universitario. «Ero bravino, ma non al punto di diventare professionista: quando gli studi in Bocconi iniziarono ad essere troppo impegnativi, accantonai le competizioni. Senza mai considerare l’idea di appendere definitivamente al chiodo racchette e scarponi: anzi, fu proprio allora che aderii al bando di selezione per ottenere il brevetto di maestro. Diciotto settimane di lezione al Passo del Tonale - difficili da conciliare con i corsi in ateneo - eppure non mi pesava, perché ero fortemente motivato: desideravo trasmettere ai bambini il mio amore per quello sport. Custodisco gelosamente i mille ritratti del “maestro Andrea” che mi donavano i piccoli alunni della Play Sport Academy», racconta il «General manager» di Cordonsed, azienda argentina facente parte del gruppo Radici, specializzata nella produzione e commercializzazione di fibre e filati acrilici.

Se oggi si trova nella patria del tango è grazie a un incontro occorso sul finire della specialistica (che stava conseguendo alla Copenaghen Business School). «Avevo deciso di iscrivermi a quel master per approfondire le tematiche legate al management dell’innovazione tecnologica. Un giorno, in uno dei miei rientri in Italia, incontrai Maurizio Radici - vicepresidente dell’omonimo gruppo - che già conoscevo, avendo gareggiato e insegnato nello sci club della sua famiglia. Il caso volle che fossero alle prese con un progetto di business innovativo: divenne l’argomento della mia tesi. Una volta laureato, mi propose di continuare a lavorare per loro e accettai al volo». Del resto, l’esperienza danese era arrivata alla sua naturale conclusione. «Gli scandinavi sono complessi: freddi, introversi. Non è facile legare con loro, men che meno impararne la lingua».

Agli antipodi con i sudamericani, che il bergamasco ha conosciuto da vicino proprio durante il biennio danese. «Ho pensato: sto vivendo in una delle cinque città più sicure al mondo, perché non provare il brivido di stare in una delle più pericolose?». Detto, fatto: approda a Caracas, dove rimane sei mesi come allievo dello Iesa (Instituto de estudios superiores en administración). «Per sopravvivere nella capitale del Venezuela è necessario attenersi scrupolosamente a una regola: mai e poi mai camminare a piedi per strada. Sempre e solo spostamenti in taxi. E dire che abitavo ad Altamira - uno dei quartieri più sicuri in assoluto - in quanto sede delle ambasciate. Eppure conservo un bellissimo ricordo di quel Paese e della sua natura mozzafiato: come il Salto Ángel – la cascata più alta della Terra –, il delta dell’Orinoco o il parco nazionale di Mochima. Per non parlare della gente: ospitale e genuina. Si accontentano del poco che hanno, a differenza di noi europei. Come scriveva Tiziano Terzani, “Oramai nessuno ha più tempo per nulla. Neppure di meravigliarsi, inorridirsi, commuoversi, innamorarsi, stare con se stessi”».

Nel lungo girovagare di Andrea non manca una parentesi a stelle e strisce. Bisogna fare un salto a ritroso ai tempi del liceo Fermi quando, grazie al programma Intercultura, studiò per un anno in Wisconsin. «Incentrai la lettera di presentazione sul mio amore per lo sci ed ebbi la fortuna di capitare in una famiglia che condivideva la medesima passione: quante sciate insieme, al confine con il Canada!».

Anche in Argentina non si è fatto scappare l’occasione di un «battesimo della neve», sebbene non sia per nulla entusiasta delle cime locali. «Cordonsed ha un impianto produttivo a 150 chilometri da Ushuaia, capoluogo della Terra del Fuoco. Mi è capitato di sciarci, ma posso garantire che è meglio il Pora: la vicinanza dell’Oceano fa sì che la neve sia tremendamente umida e soggetta a trasformarsi in ghiaccio. In compenso, è una zona che offre un paesaggio unico: merito della combinazione di montagne, mare, ghiacciai e boschi. Mi consolo con il kitesurf: il fine settimana vado a San Isidro, a una trentina di chilometri da Buenos Aires. Una scelta che differisce da quella degli indigeni, che ogni venerdì sera emigrano al mare: peccato disti 700 km. Così si creano code infinite: perché sebbene gli argentini somiglino agli europei, quando guidano o devono essere puntuali, sanno essere molto sudamericani».

Buenos Aires è una bella città. «Dal punto di vista urbanistico ricorda Madrid, più che qualsiasi altra Capitale latinoamericana. Una metropoli di 14 milioni di abitanti – se consideriamo anche l’hinterland – vivace, sicura e giovane. È frequente imbattersi in altri italiani, così come nei tanti bergamaschi venuti qui per lavoro. C’è una cosa che mi colpisce sempre: ogni argentino sa esattamente cosa stesse facendo nel momento in cui è stato eletto Papa Francesco. In Italia capita lo stesso solo quando si rievoca la finale dei Mondiali di calcio del 2006».

Il futuro? Chissà. «Sono contento: a 29 anni ricopro una posizione poco consona per un ragazzo della mia età. I miei genitori – papà Alberto, medico di famiglia a Urgnano e mamma Serena, insegnante di economia all’Itis Einaudi di Dalmine – mi hanno insegnato ad apprezzare ciò che ho e a vivere giorno per giorno. A volte, però, capita che qualcuno mi chieda se mi mancano i miei amici d’infanzia. E, puntualmente, mi ritrovo con l’amaro in bocca, poiché devo rispondere che no, non mi mancano: ed è perché ormai, a Bergamo, ne sono rimasti davvero pochi. Tutti costretti a emigrare. È desolante constatare come in Italia, per noi giovani, non ci sia più spazio».

Essere più vicini ai bergamaschi che vivono all’estero e raccogliere le loro esperienze in giro per il mondo: è per questo che è nato il progetto «Bergamo senza confini» promosso da «L’Eco di Bergamo» in collaborazione con la Fondazione della comunità bergamasca onlus. Per chi lo desidera è possibile ricevere gratuitamente per sei mesi l’edizione digitale del giornale e raccontare la propria storia. Per aderire scrivete a: [email protected]

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