Gite nei boschi e filosofia
Così insegno in Svezia

Trasmettere al bambino la curiosità verso il mondo, il rispetto e la capacità di ascolto nei confronti di se stesso e degli altri, attraverso una continua interazione con l’ambiente che lo circonda: così Matteo Cattaneo descrive in poche parole il complesso approccio educativo adottato nella sua scuola materna di Stoccolma.

«Formalmente sono un insegnante, visto che, a differenza dell’Italia, in Svezia una laurea in Scienze pedagogiche dà accesso alla docenza – racconta il giovane bergamasco, classe ’82– ma continuo a sentirmi educatore e pedagogista». Cinque anni fa, il link che ha fatto scattare il suo passaggio nel Nord Europa è stata la moglie svedese che, una volta laureata, aveva un lavoro assicurato in patria, mentre in Italia non c’era una prospettiva allettante nel breve periodo.«Prima della partenza ho lavorato per 10 anni come educatore in diversi servizi qui a Bergamo e per poter sopravvivere fuori casa ho integrato il mio lavoro di base facendo l’istruttore di basket e il cameriere al ristorante».

Qual è stata la maggior difficoltà nel trovare lavoro all’estero?

«Il timore era forse il mio svedese maccheronico del tempo, ma poi in realtà non si è rivelato un problema. Con in mano una laurea in Scienze dell’educazione, ho svolto diversi colloqui e dovevo soltanto scegliere dove andare: il dato più evidente è che in Svezia c’è una grande carenza di insegnanti e si è calcolato che nella sola scuola materna da qui al 2025 ne mancheranno 10 mila, perché molte persone andranno in pensione senza un ricambio. Spinto dal fatto che il mercato del lavoro è flessibile e ricco di tutele, ho poi deciso di specializzarmi maggiormente e durante questi anni ho fatto il pendolare per dare gli esami per la magistrale in Scienze pedagogiche, sempre a Bergamo».

Come è stato l’atterraggio nell’universo scolastico svedese?

«Molto buono. Sia con i colleghi che con i bambini, i quali candidamente all’inizio del mio percorso mi hanno insegnato diverse parole in lingua svedese. La mia giornata tipo alla scuola materna si sviluppa tra momenti di gioco, atelier di pittura, filosofia con i bambini, psicomotricità, teatro, musica e attività all’aria aperta, mentre un giorno alla settimana si effettuano visite a musei e parchi cittadini. A livello organizzativo la differenza sostanziale con l’Italia è che, a parte le feste comandate, le scuole non chiudono mai e anche lungo l’estate c’è continuità progettuale e di personale; ogni istituto organizza gli orari in base alle esigenze complessive dei genitori, ad esempio ci sono asili aperti solo di notte. Non è il mio caso: seguo un orario abbastanza ordinario».

Mentre a livello di approccio alla didattica ed educativo cosa cambia?

«La scuola per l’infanzia svedese è fondata sul metodo Reggio Emilia, un approccio pedagogico tutto italiano che nel Belpaese è utilizzato in modo circoscritto. In sostanza, gli insegnanti e gli educatori sono delle guide per il bambino, che ha molta libertà e costruisce attivamente le proprie conoscenze in base a quel che gli piace attraverso una continua interazione con il mondo circostante. Per rendere l’idea: se in Italia in certi contesti educativi bisogna ricopiare pari pari un fiore da un libro, o colorarlo stando ai dettami dell’insegnante, in Svezia si porta un fiore vero e il bambino è libero di interpretare il disegno come vuole, condividendo poi la sua scelta con gli altri. O ancora, si lavora molto sui progetti, lavori di gruppo basati sugli interessi dei bambini in quel momento. Si sente spesso parlare di grandi necessarie riforme nella scuola italiana, mentre abbiamo già gran parte di quello che ci serve, solo che lo utilizziamo marginalmente».

In Svezia ci sono i tanto temuti voti?

«Dimenticate il nostro sistema gentiliano basato sulla conoscenza e sui voti; qui sono ritenuti possibili generatori di stress nel bambino e fino alla loro media non esistono. Complessivamente la scuola è basata più sullo sviluppo delle competenze personali attraverso il fare ricerca e la costruzione di progetti personalizzati. Non è comunque l’Eldorado, ci sono delle criticità. Una su tutte: se non sei stimolato in maniera corretta, fai soltanto il minimo perché non hai l’idea di poterti migliorare davvero».

La tanto decantata vita scandinava è un bel film o è reale?

«Tutto fila mediamente bene. Ci sono tre sistemi che funzionano. Da un lato il federalismo: le tasse che paghi finiscono nel comune di residenza, che si fa carico di tutti i servizi ed è un interlocutore diretto in caso di disagi; dall’altro, vuoi anche per mentalità, tutti tendono a contribuire al bene pubblico e la forte digitalizzazione sfavorisce l’evasione fiscale: ad esempio, uso un’app del cellulare per pagare ogni cosa, dai biglietti del treno alle tasse. Poi c’è la cosiddetta “terza via”: una proficua integrazione tra capitalismo e sistema socialista del welfare».

E a livello di vita quotidiana?

«A livello più personale, Knivsta, la cittadina a 70 chilometri a Nord della capitale dove vivo con mia moglie e mia figlia di pochi mesi, è abbastanza aperta e si respira un senso comunitario, a differenza di Stoccolma, dove è più difficile crearsi dei contatti, come del resto in ogni grande città toccata dal fenomeno del pendolarismo. La qualità della vita è indubbiamente alta e nei giorni liberi ne approfittiamo per fare lunghe camminate nel verde o visitare le belle città che abbiamo intorno. Confesso che non mancano i momenti nei quali seguo le partite dell’Atalanta e qualcuna di Liga e Premier».

Progetti per il futuro?

«Onestamente mi mancano la mia famiglia e il mio paese, e quando torno faccio maree di camminate traendo beneficio da ogni metro percorso lungo le splendide Mura di Città Alta o dintorni. Al momento, vista la recente nascita di mia figlia, fino ad agosto sono in congedo parentale e posso godermi in toto i suoi primi mesi di vita. Per una questione di opportunità vedo il mio futuro in Svezia. Ora sto scrivendo un progetto per l’Università di Stoccolma che potrebbe darmi accesso a un dottorato in Pedagogia».

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