Ricercatore? Meglio a Zurigo
Studio tumori con stampanti 3D

«Ho provato, ho fallito. Non importa. Riproverò. Fallirò ancora. Fallirò meglio». Cita lo scrittore Samuel Beckett il biologo molecolare bergamasco Aldo Ferrari: l’aforisma è un vero mantra nel suo lavoro di ricerca scientifica per il Politecnico di Zurigo.

Visto infatti che la biologia s’interfaccia con qualcosa di vivo, le sue applicazioni portano sempre a un certo grado di fallimento rispetto alle aspettative. La vita non è manipolabile a piacimento. Ma la si può osservare e «avanzare nel capire». Attraverso piccoli, grandi passi.

Lui ne ha compiuti molti: nato nel 1974 e originario di Caravaggio, dopo il liceo scientifico ai Salesiani di Treviglio, è stato ammesso alla Scuola Normale di Pisa dove ha ottenuto la laurea in Biologia, alla quale è seguito un dottorato in Fisica e un post-doc a Zurigo.

Trascorsi un paio d’anni di ricerca in Toscana, sulla base di un progetto approvato, il Politecnico della capitale svizzera lo ha richiamato nel 2009 come capo gruppo presso il dipartimento di Ingegneria meccanica, affidandogli la gestione di un intero laboratorio formato da un’èquipe di 8 persone.

«In questi giorni stiamo incorporando uno spin off – racconta –. È una società che vuole commercializzare una ricerca brevettata nel nostro dipartimento. Due anni fa ho sviluppato un cerotto “attivo” fatto di cellulosa, ottenendo anche il premio della città di Caravaggio. La sua specifica geometria aiuta le cellule a muoversi attraverso dei microbinari: il risultato è una migliore rigenerazione del tessuto e una chiusura della ferita più veloce. Il resoconto completo dei test lo avremo a inizio 2015 e la speranza è di riuscire ad attrarre finanziamenti».

La stessa tecnologia può essere impiegata negli impianti mammari e cardiaci: «I materiali sintetici di cui sono fatti creano nel paziente un certo livello di infiammazione. Ricoprendoli con uno strato di cellulosa simile per forma a una busta puntiamo a eliminare questi effetti collaterali».

Un altro ambizioso piano è lo Zurich Heart Project: «L’obiettivo dello studio – continua Aldo – è cambiare la prospettiva degli impianti cardiovascolari, creandone uno definitivo in grado di integrarsi perfettamente come una parte del corpo umano».

Oltre a tenere un corso di Meccanobiologia, c’è poi una parte di ricerca dedicata alla biologia di base: «Siamo uno dei pochi laboratori al mondo all’interno di un dipartimento di Ingegneria meccanica. Il vantaggio è che siamo esposti a numerose tecnologie con una base comune come la scala del nanometro e del micron. Semplificando: tramite una stampante 3D è possibile creare su materiali e superfici delle piccole barriere per studiare i movimenti e lo sviluppo delle cellule tumorali all’interno dei tessuti. Può sembrare avveniristico, ma le nostre ricerche vogliono migliorare la vita delle persone e siamo in stretto contatto con l’ospedale di Zurigo».

Aldo descrive poi la vita nella città svizzera: «Integrarsi è semplice. All’inizio ci vuole un po’ per capire quanto siano fisse le regole e come vengano rispettate al millimetro. Tutto sommato, questo aspetto porta dei vantaggi: l’amministrazione pubblica è veloce, semplice ed efficace».

E il tempo libero? «Lo dedico soprattutto a mio figlio Oliviero di sei anni. Giochiamo a pallone, esploriamo insieme le montagne, i laghi e le città circostanti. La mia scelta di lavorare qui, oltre che dal punto di vista professionale, è nata dall’idea di crescerlo in un ambiente dove si parlano più lingue e ci sono maggiori possibilità. Zurigo è una città a prova di bambino: certo, dista solo 500 metri da casa, ma Oliviero va all’asilo da solo».

I visitatori non mancano:«Almeno una volta al mese molti amici bergamaschi vengono a trovarmi. Nel week end la mia casa si trasforma in un ostello. Qui il cibo è un disastro e “mi pagano l’affitto” con vino, olio, biscotti e prodotti tipici». L’aspetto che più gli manca è il binomio socialità-gastronomia: «Non esiste il bar come luogo per staccare e fare due chiacchiere o l’uscita al ristorante decisa all’ultimo. Oltre ai prezzi alti e alle porzioni scarse c’è di mezzo una questione culturale».

«Ad esempio – spiega –, andando con la mia attuale compagna in un’osteria del suo piccolo paese ho iniziato una conversazione con altre persone che non conoscevo. Nei primi incontri, la prassi svizzera è fermarsi al “come ti chiami e da dove vieni” e vista la mia loquacità mi guardavano strano e si saranno chiesti “ma questo cosa vuole?”. Ciò per spiegare che i rapporti di amicizia e vicinanza qui faticano a decollare».

La percezione dell’italiano da parte della Svizzera tedesca è ambivalente: «La nostra solare vivacità, il cibo e la moda sono ben voluti. È però diffusa l’idea stereotipata dell’italiano non del tutto affidabile o che la donna da noi sia ridotta in molti casi a oggetto. Le nostre vicende extraparlamentari del passato, qui molto seguite, non ci sono state d’aiuto».

Sul lato della ricerca «a livello di infrastrutture e conoscenze nello Stivale abbiamo poli scientifici al top, ma ho l’impressione che stabilire delle collaborazioni sia più difficile: in questioni puramente scientifiche entrano in gioco burocrazia e politica. Inoltre, quando ero dottorando in Italia potevo permettermi una vacanza con lo zaino in spalla per l’Europa, mentre i miei attuali collaboratori si fanno un mese oltreoceano».

Nel lungo periodo la voglia di tornare è tanta: «Sono soddisfatto in Svizzera, ma non vorrei invecchiare qui. Torno a casa ogni due mesi per riabbracciare i miei genitori e i luoghi familiari. Semplicemente, anche vedere una partita al bar con gli amici davanti a una birra è un’occasione che non mi perdo per nulla al mondo.

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