«Porto Abercrombie
in tutta Europa»

Il mondo della moda propina da decenni storie di top model scoperte da famosi agenti mentre camminavano per strada, in spiaggia o in aeroporto. Ma di un top manager scovato mentre passeggiava nei pressi dell’università non c’è memoria.

Eppure è andata così per Ippolito Fusco: 32 anni, bergamasco, risiede a Breda, in Olanda, da due anni, poiché ricopre il ruolo di «Director supply chain» (ovvero è a capo della catena di distribuzione per l’Europa e il Medio Oriente) di «Abercrombie & Fitch», marchio statunitense leader dell’abbigliamento casual e molto amato dai giovani di tutto il mondo (presente anche nella Bergamasca con «Hollister», appartenente allo stesso gruppo).

«Può suonare strano, ma è iniziato tutto per caso, a febbraio del 2009: avevo appena varcato il portone della Cattolica, dove stavo finendo la mia laurea specialistica in “Management dell’impresa”. Mi avvicinò un signore americano e mi raccontò che a ottobre avrebbe inaugurato il primo Abercrombie in Italia: il secondo in Europa, dopo quello di Londra. Mi chiese se fossi interessato a sostenere un colloquio. Io conoscevo il brand perché mio padre faceva spola con gli Stati Uniti per lavoro e mi portava spesso regali firmati A&F».

Del resto la moda è nel dna della famiglia Fusco considerato che il capofamiglia, Fabio, è stato amministratore delegato di «Calvin Klein Collection» negli ultimi dieci anni. E fu proprio lui, nel 2007, a cavallo tra la laurea triennale e quella specialistica, a spingere il figlio a fare uno stage da «Dolce & Gabbana» a Hong Kong. «Era la mia prima volta lontano da casa: l’inizio si rivelò traumatico, ma alla fine non volevo più tornare indietro. Durante quell’esperienza mi appassionai di logistica, distribuzione e flusso delle merci e decisi di proseguire il mio percorso di studi in quella direzione, con una tesi comparativa del modello distributivo di “Dolce & Gabbana” e “Calvin Klein”».

Ma torniamo al 2009. E a quello che avvenne dopo quell’incontro fuori dalla Cattolica. «Iniziai con un training di tre mesi a Londra, durante i quali svolsi qualsiasi mansione: dai turni notturni in magazzino – processando, lavando e piegando la merce – fino alla cassa, di cui mi sono occupato anche in tempi più recenti, quando ho contribuito all’apertura di Hollister a Oriocenter e a Roma. A fine ottobre tornai a Milano, dove lavorai per 13 ore al giorno con venti manager americani: una palestra, che mi permise di diventare il riferimento per i 900 dipendenti italiani».

L’universo di A&F irrompe come una ventata di novità nel mercato. «Ero rapito dal loro concetto di vendita: negozi curatissimi, caratterizzati dal posizionamento maniacale dei prodotti, musica di sottofondo e marketing olfattivo. Strategie per certi versi estreme: su tutte l’assumere commessi-modelli a torso nudo. Eppure sono state proprio queste scelte, che per tutta la prima decade del 2000 avevano decretato il trionfo del brand, a determinarne una flessione iniziata nel 2011, ormai lasciata alle spalle grazie alla nomina di due nuovi amministratori delegati nel 2014. Dopo la loro designazione è mutato l’aspetto dei punti vendita e sono migliorate notevolmente la qualità e il taglio dei vestiti. Si è optato per un approccio più “umile” nei confronti del cliente, sradicando l’idea che soltanto i belli potessero indossare capi A&F».

E se una coincidenza lo aveva fatto entrare nell’azienda, è stato ancora una volta il fato a determinare la sua ascesa nell’organigramma. «A dicembre del 2010 ero di turno una domenica. Venne in visita un pezzo grosso direttamente dagli Usa: la sua era un’incursione quasi in borghese e aveva bisogno di qualcuno che gli facesse da Cicerone all’interno dello show room. Gli piacqui e mi riferì che stavano cercando una figura che seguisse la distribuzione su scala europea». Pochi mesi dopo, Ippolito si trasferisce a Como, dove per quasi tre anni fa il frontaliero, recandosi a Mendrisio ogni giorno e tornando dalla famiglia, a Bergamo, il fine settimana. «Una grande occasione per scoprire il dietro le quinte dei negozi e mettere a fuoco le logiche di fornitura».

Nel 2013 arriva una nuova proposta. «Abercrombie stava spostando il suo magazzino europeo a Breda, a Sud dei Paesi Bassi. Si tratta di un enorme capannone di 40 mila metri quadri, da cui ogni anno vengono spedite 30 milioni di unità, tra e-commerce, vendita al dettaglio e all’ingrosso. Da quando vivo qui ho supportato l’apertura di 125 esercizi in tutta Europa e sono diventato responsabile per il Medio Oriente: entro l’anno contiamo di totalizzare nove nuovi punti vendita».

Ma la scalata ai vertici di un brand che ha fatto dell’informalità la sua cifra stilistica presenta anche un rovescio della medaglia. «A volte mi piacerebbe vestire in giacca e jeans: non mi è permesso, perché devo essere ambasciatore del marchio e la cravatta non rispecchia il nostro stile. Addirittura la vecchia leadership spingeva perché indossassimo soltanto infradito, perché A&F non produce scarpe: io mi rifiutavo, non le metto nemmeno in spiaggia. Però per la visita dell’amministratore delegato mi dovetti adeguare e presentarmi in ufficio in jeans, camicia a quadretti e ciabatte di gomma».

Nonostante viva nei Paesi Bassi da due anni, Ippolito ammette di essere digiuno di olandese. «Ho persino frequentato un corso intensivo e pensavo di essere portato, considerata la somiglianza con il tedesco, che è la lingua di mia madre, Carmen, austriaca: poi ho iniziato a notare che quando cercavo di interagire in olandese la gente sorrideva e rispondeva in inglese, quindi ho lasciato perdere. Ormai parlo soltanto in inglese – senza perdere l’accento bergamasco – dato che la mia fidanzata, Bruna, è tornata in Italia per lavoro».

Benché il suo futuro sembri essere lontano dall’amata Bergamo – per il 2017 ipotizza il trasferimento in Asia, dove Abercrombie punta a espandersi nei prossimi anni – il 32enne confida che non gli dispiacerebbe ricevere una proposta allettante dall’Italia, della quale inizia a sentire nostalgia. «Mi mancano la mia famiglia, le passeggiate in Città Alta con il mio cane, le colazioni della domenica mattina al Bar della Funicolare e le partite di calcio con gli amici. Sì, perché è da quando vivo a Breda che cerco di mettere su una squadretta, eppure non trovo nessuno: gli olandesi giocano soltanto a hockey su prato».

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