L’italia del pallone
e l’elogio del pareggio

di Franco Cattaneo
Anche noi tifiamo Italia. Ma, a differenza delle persone normali, cioè della maggioranza degli italiani, auspichiamo che gli azzurri non vincano vincendo, bensì vincano pareggiando, restando cioè ai minimi sindacali.

Anche noi tifiamo Italia. Ma, a differenza delle persone normali, cioè della maggioranza degli italiani, auspichiamo che gli azzurri non vincano vincendo, bensì vincano pareggiando, restando cioè ai minimi sindacali. Qui mi fermo perché ho già perso il filo aritmetico, ma preme ricordare che il pareggio è un valore e non un risultato: uno stile di vita, il buon vivere per tutte le stagioni. Non è qualcosa che si vede e che si può mettere a bilancio: consente di sopravvivere e di galleggiare sulle spalle degli altri. Del pareggio si può dire quel che un celebre giornalista francese diceva della Dc: non si definisce, si constata.

È un punto di vista, un’arte di vita, lo strumento di ultima istanza che soccorre il piccolo contro il grande, il debole contro il forte. Un esito a tutto tondo, privo di spigoli: accontenta tutti, e dite poco? Il nostro è un atto d’amore verso l’armonia, verso un ciclo umano sconfitto dal gioco del bipolarismo: o di qua o di là. Eppure oltre al bianco e al nero c’è il grigio, la felicità del grigiore, e il pareggio svela un volto umano e amichevole, perché si accuccia nel quasi gol che permette l’illusione ottica della vittoria. Il pari consente a tutti di dire di aver azzeccato le previsioni, perché la sostanza, il contesto che conta, la possiamo aggiustare con una pacca sulle spalle. Il pareggio è il luogo in cui il conflitto amico-nemico si ribalta in quello di amico-amicissimo e si colloca nel virtuoso equilibrio fra la quasi vittoria e la quasi sconfitta: ecco l’ultima residenza nota dell’Italia moderata, là dove si conciliano le più radicali differenze e dove lo spirito di parte si attenua nel disincanto.

Un ammortizzatore sociale, un salto della quaglia nel campo della biodiversità: si gioca sulle fasce e sulle curve e mai per linea retta, si corre nel territorio del compromesso, dell’accordo consociativo, un po’ a te e un po’ a me, diamoci la mano e amici più di prima. Gianni Brera, il Grande del giornalismo sportivo, teorizzava lo 0-0 come risultato perfetto, la sintesi di un equilibrio ineguagliabile, mentre Mario Sconcerti, sul «Corriere», ha scritto che il calcio è il riassunto della gente. Noi aggiungiamo che il pareggio è l’autobiografia del Paese. Il buon Giolitti, che sarà stato pure il «ministro della malavita» come lo bollava l’inquieto Salvemini, conosceva bene i suoi connazionali: diceva che l’Italia ha la gobba e quindi ai suoi cittadini serve un abito adatto in grado di pareggiare le tortuosità. Un vestito che mimetizzi le devianze, capace di adattarsi ad un territorio ostile: come i camaleonti. Chiamatelo pure disvalore, eppure l’ecumenismo del pareggio ha evitato che le lacerazioni superassero il punto estremo. Un Paese che in ogni caso continua a piacerci, anche perché al dunque – se la signora Merkel consente – sappiamo vincere perché abbiamo fatto i compiti a casa e possiamo permetterci il lusso di non dare sberle a nessuno, a cominciare dall’Uruguay, dato che siamo persone perbene. Guai alle nazionali che hanno bisogno di eroi: il pareggio è un trekking di sopravvivenza che consente di lucrare sui tempi lunghi inadatti ai numeri 1, ritagliato su noi uomini in grigio che stiamo nelle seconde file, e possibilmente anche nelle retrovie per imboscati della sussistenza, perché i primi della classe cadono come i birilli. Non date cattivi consigli a Prandelli, non ditegli che deve avere la schiena dritta e che deve essere tutto d’un pezzo, sennò non vede dove mette i piedi: sia ginnico e flessibile, antieroe e incoerente, un po’ di tiki taka e poi di ruba palla, e via pareggiando. Non c’è bisogno di battere l’Uruguay, basta farselo amico.

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