Di cui sopra

A dar retta a quanto si legge qui e là - e con «là» si intende tra l’altro il New York Times - tra poco saremo in guerra.

Una coalizione guidata dagli Stati Uniti e formata da Francia, Gran Bretagna e, appunto, Italia, dovrebbe occuparsi di fronteggiare militarmente l’Isis in Libia, territorio che dopo la caduta di Gheddafi, provocata più o meno dalla medesima coalizione, è almeno in parte caduto in mano ai disgustosi tagliagole.

Non voglio addentrarmi sull’opportunità strategica dell’intervento e neppure sulla sua sostenibilità politica. Arriverò a dire che non mi interessa neppure discettare sulla questione morale (o immorale) che, sempre, l’uso delle armi porta con sé. La mia immediata curiosità - se è poi questa la parola che cerco - riguarda l’impatto culturale dell’annunciato attacco. O, se preferite, le conseguenze sociali. In altre parole, mi chiedo se ci rendiamo ben conto su quale Italia sta per abbattersi la responsabilità di bombardare terroristi in Libia.

Neppure facendo galoppare l’immaginazione - e non credo di averne poca - riesco a quantificare il volume delle reazioni che si scateneranno. Altrettanta paura delle bombe, e delle possibili ritorsioni, mi provoca l’idea di leggere ciò che leggeremo, sentire ciò che sentiremo e vedere ciò che vedremo.

Lo dico sapendo bene di essere complice e in parte direttamente responsabile dello sciocchezzaio che, ogni giorno, lo scadimento dei riferimenti culturali va sollevando nel nostro Paese. Però mi spaventa pensare che davanti a responsabilità gravi - e non ce n’è di più gravi che muovere una guerra - non sapremo fare di meglio che usare i soliti toni, le solite espressioni, i soliti «nonsense» e le solite buffonate retoriche.

Oppure non andrà così e l’Italia dimostrerà di essere un Paese unito nella diversità, compatto nella libertà di opinione e affidabile negli impegni e negli intenti. Purtroppo, soltanto a scriverlo sembra già di veder confermati i timori di cui sopra.

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