Repubblica stessa

Non sono vecchio quanto la Repubblica Italiana - che oggi compie 70 anni - ma sono anziano abbastanza per dire che, alla mia nascita, la Repubblica medesima era giovane. All’epoca, poco più che ventenne, aveva lasciato da poco un presidente del Consiglio - Amintore Fanfani, giunto alla quarta squadra di governo - e stava per mettersi con uno «nuovo», Giovanni Leone, destinato a una carriera politica di decolli, schianti e riabilitazioni. A vigilare sulle relazioni politiche della giovane, un presidente che non ho il privilegio di ricordare direttamente: Antonio Segni.

I miei primi ricordi del Quirinale comprendono infatti un altro presidente, quello successivo: Giuseppe Saragat. Era un questi un signore che appariva un paio di volte all’anno in tv (nel contesto grigio dello schermo lo si intuiva collocato dietro una scrivania imponente, forse dorata), diceva cose incomprensibili - per me - e concludeva il discorso con un tonante “Viva la Repubblica, viva l’Italia!”

Ne deducevo che, per il signore, la Repubblica avesse molta importanza, tanto che la esaltava ancor prima della Nazione. Non condividevo il suo entusiasmo: non per spirito sovversivo, ma perché non avevo mai sperimentato altro. Non la monarchia, non la dittatura. Crescendo e studiando, ho capito di averla scampata bella.

Di recente ho scoperto che fu Saragat a introdurre il primo stendardo della presidenza: l’emblema della Repubblica in campo blu. L’emblema mi sembra di conoscerlo da sempre: lo stellone davanti a una ruota dentata, circondato da fronde di quercia e d’ulivo. Fin da piccolo me lo son visto passare sotto il naso: sulla carta d’identità, sul portone dei Carabinieri, sulla fascetta delle sigarette. Un simbolo che si intuiva solenne ma che faticava - al modo dei rebus nella Settimana Enigmistica - a uscire dall’astrazione. Un po’ come faticava, e fatica ancora, la Repubblica stessa.

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