Alle Fiji il «riposo del guerriero» ricordando il raid in Sudamerica

NAVITI (Isole Fiji) -Sto scrivendo nella camerata di un resort di Naviti, un’isoletta delle Fiji. Fuori piove a dirotto e c’è vento, per fortuna non è la normalità. Tè, biscotti al cocco e una neozelandese che mi domanda perché sto armeggiando con una cartina della Patagonia argentina in mezzo all’oceano Pacifico. Non sa che sono un ritardatario. Finalmente posso continuare il racconto del raid in Sudamerica. Le ultime puntate ho preferito dedicarle all’attualità perché sono stati due mesi di avventure e di corse on the road, con rari momenti di tregua, in cui ho dovuto guidare per migliaia di chilometri e risolvere complessi problemi organizzativi che stavano per rovinare il giro del mondo, ma ora sono in totale relax in un paradiso terrestre. Dopo aver gioito in solitudine per il trionfo dell’Italia a Beachcomber island (nella foto a sinistra) vedendo all’alba la finale dei Mondiali su un maxischermo in riva al mare, e purtroppo non c’era nemmeno un francese da sfottere (a proposito, campioni del mondo in figiano si dice «Na jabeni ni vuravura»), sto vagabondando di isola in isola dell’arcipelago alternando immersioni nella barriera corallina, snorkelling, trekking, visite a villaggi fatati e ore a oziare sotto il sole (FOTO 2). Il mare è davvero fantastico, ondeggia tra il blu intenso e il verde chiaro (FOTO 3), i pesci sono colorati come l’arcobaleno, i tramonti impagabili.

In totale relax, qui dicono «Fiji time» per calmare l’inconscia frenesia occidentale, attendendo il tour de force siberiano, l’ultimo ciclopico tappone prima del rientro in Italia. Intanto è trascorso un anno dalla partenza, il tempo è volato, ma non i ricordi che si stanno accumulando formando una montagna incantata. Con il racconto mi sono perso alla fine del mondo, a Ushuaia, nella Tierra del Fuego argentina, anche se molte chicche le ho già accennate quasi in diretta. Da Ushuaia abbiamo ripercorso l’identica strada dell’andata, ma in senso inverso, per rientrare in Cile, il nuovo obiettivo erano le Torri del Paine. (sopra)
Superato il confine, pausa in un bar-ristorante-hotel che sembra essere stato catapultato lì dalla macchina del tempo: stile America anni Cinquanta, un mezzo drive-in, profusione di similpelle rossa e una cameriera materna e chiacchierona. Ho scambiato due parole con Carlos, un cinquantenne statunitense di Chicago, in viaggio dall’Alaska alla Tierra del Fuego con la sua vecchia Bmw. Tuta nera in pelle, baffoni, Carlos stava leggendo un libro e bevendo vino, un personaggio decisamente alla Easy Rider. Mi ha rassicurato sulle strade dell’Alaska che mi avrebbero atteso nella tarda primavera. Eravamo all’altezza dell’Estancia San Gregorio, una cittadina fantasma, quando è diventato buio e ci siamo fermati nell’unica sistemazione che c’era nei paraggi, l’hospedaje Sanhueza (a destra). Non saprei come definirla, se non una topaia allucinante gestita da due fratelli tarchiati e inquietanti. Una topaia che si candida autorevolmente al titolo di sistemazione più squallida del raid (insieme a un’ex stalla in Bolivia...). Tra l’altro pagata cara (10 euro ciascuno per una tripla infame) con il supplemento di un euro e mezzo per l’uso della doccia!!! Non posso non descriverla. Entrando la pseudo-reception e la sala da pranzo: legno da baita, stufette, soprammobili kitsch, mix di piante vere e finte, un frigorifero arruginito e rotto, tavoli e sedie da trattoria di quart’ordine. Dietro la pseudo-reception una cucina d’anteguerra. Il resto era un disastroso labirinto, l’hospedaje era in pratica la casa dei fratelli che affittavano alcune stanze e - mi è sembrato - un paio di divani sdruciti in una confusa area salotto. La stanza dove abbiamo dormito era composta da due letti a castello con le lenzuola bucate, una finestra impossibile da aprire, un comodino da ospedale, un tappeto lercio e una stufetta a gas, la luce se ne è andata presto, ma ci hanno dato una torcia. Nel bagno c’era odore di muffa, la vasca era scrostata e sporca, il tappeto lurido, le tubature a vista, fiori finti, carta da parati oscena. Se volevamo c’era un bagno più bello. Ah, meno male. Ve lo raccomando! La porta era bassa e si vedeva dentro, le finestre semirotte, le quattro docce erano senza tendine, così l’acqua schizzava dappertutto, tubetti di dentrificio sparsi qua e là.... Un incubo, siamo scappati all’alba.

Punta Arenas, sullo stretto di Magellano, non ci ha conquistato e le abbiamo dedicato soltanto la mattinata visitando il Club de la Union, un palazzo regale. Atmosfera da fine Ottocento. Peccato non fosse aperto il bar nel seminterrato del palazzo, un’istituzione da cento anni. E’ dove i viaggiatori di un tempo si scambiavano i loro racconti bevendo un whiskey. Rotta su Puerto Natales (foto sopra), la città più vicina alle Torri del Paine, che ci ha offerto un panorama più attraente e intimo essendo incuneata in un fiordo. Per una sera io e Stefano ci siamo concessi una cena, senza badare a spese, in un ristorante rinomato e tra i commensali c’era pure Cochi Ponzoni, sì il socio di Renato Pozzecco, con la moglie-compagna e la figlia. Purtroppo non avevo con me la fotocamera, ma Cochi è stato simpatico e informale nel conversare con noi per una decina di minuti.
Sulla strada per le Torri del Paine, 24 km a nord-ovest da Puerto Natales, c’è la grotta del milodonte (a sinistra), dove a fine Ottocento il ricercatore tedesco Hermann Eberhard scoprì i resti di un gigantesco bradipo, alto circa quattro metri. L’erbivoro è stato fonte d’ispirazione per lo scrittore inglese Bruce Chatwin che ne parla proprio nella prima pagina del suo memorabile «In Patagonia». Chi viene qui è perché ha letto il libro, ma incredibilmente di Chatwin non c’è traccia in nessun opuscolo del sito. La grotta è suggestiva, la riproduzione in plastica del milodonte abbastanza ridicola, anche se ha perlomeno il pregio di rappresentare come doveva essere l’animale. Pare insomma che il milodonte sia davvero esistito, non come il mitico Sarchiapone di Walter Chiari.... Niente Torri del Paine per Nicola che, febbricitante, ha dato forfait e ci ha atteso un giorno a Cerro Castillo, paesino al confine con l’Argentina, dove mi sono rifornito in un distributore eclettico: una sola pompa manovrata da un bambino dispensava benzina e diesel. Abbiamo dato uno strappo a un tedesco, in viaggio in Sudamerica in bicicletta, che aveva momentaneamente accantonato le due ruote per il trekking. Ci ha raccontato che la Patagonia è affascinante pure per i ciclisti (se ne vedono numerosi, italiani compresi), ma è molto insidiosa per il forte vento: quando è contrario la massima velocità possibile è di 10 km orari e si rischia di essere sbalzati dalla sella.
Non eravamo in vena di sgambate supplementari e abbiamo annullato in fuoristrada il pezzetto che separa l’entrata del parco della laguna Amarga dal rifugio Las Torres, partenza del trekking. Si passano un ponte, la cui larghezza supera a malapena quella del Land Cruiser, e distese di fiori selvatici, come le margherite. Il parco è un cocktail di montagne, ghiacciai, fiumi e laghi con diversi microclimi e di conseguenza diverse vegetazioni: bosco, steppa patagonica e deserto andino. Il circuito classico di un escursionista serio è quello denominato a W che consente di lambire le vette principali con un trekking da tre a cinque giorni, ma per noi era sufficiente vedere le tre Torri del Paine dal punto panoramico più bello, il mirador Las Torres, a circa 1.000 metri, 800 metri più in su del rifugio Las Torres: 9,5 km, 4 ore di tempo previste. L’approccio è decisamente duro con quasi un’ora di costante e ripida salita. A quota 570 il sentiero si spiana correndo a strapiombo sul rio Ascencio, si ridiscende di 150 metri e, attraversato un ponticello, ci si può riposare all’hotel-camping Chileno. Secondo tratto di un’ora e mezza, si accompagna per un po’ il fiume, si risale addentrandosi in un bosco di lecci e si sbuca infine in un’area priva di vegetazione. Montaggio veloce della tenda all’accampamento Torres e corsa, per modo di dire..., al punto panoramico prima del tramonto. Ci è voluta ancora un’oretta perché l’ultimo strappo, da 600 a 1.!000 metri, non è un sentiero, ma un cumulo ininterrotto di rocce sulle quali arrampicarsi. L’agilità è indispensabile. Nuvolette di imprecazioni cancellate da una vista magnifica.

E dire che la giornata era nuvolosa. Davanti ai nostri occhi si è composta questa immagine: le tre Torri del Paine (FOTO 8), tre colossi di granito (2.600, 2.800 e 2.850 metri da destra a sinistra) che mostravano le pareti verticali in tutta la loro altezza, alla base dei massicci il ghiacciaio e, sotto uno strapiombo levigato di roccia a strisce marroni e bianche, un laghetto verde smeraldo in cui morivano i rivoli d’acqua originati dal ghiacciaio. Uno spettacolo degno delle nostre Dolomiti.
Di notte il termometro è sceso a zero. La mattina dopo siamo scesi sostando al rifugio Las Torres per una colazione mai consumata. Si chiama rifugio, ma in realtà è un hotel di lusso, considerando anche il costo di una bevanda calda, circa cinque euro, quanto una cena a Buenos Aires. Stop in una laguna per fotografare fenicotteri e guanacos (sulle montagne ci sono pure i puma ma à improbabile avvistarli) e, recuperato Nicola, ci siamo diretti a El Calafate, la cittadina più vicina al Perito Moreno, rientrando così in Argentina. Ci siamo distratti, saltando un paio di distributori, cosicché abbiamo rischiato di rimanere a secco. Per risparmiare carburante ho ridotto notevolmente la velocità, ho spento il fuoristrada in una lunga discesa e la riserva è durata abbastanza per scorgere con un sospiro le prima case di El Calafate. Nel serbatoio erano restati meno di due litri di gasolio.
È quasi impossibile stilare una classifica delle meraviglie del raid, anche perché molto dipende dallo stato d’animo e dalle condizioni meteorologiche, ma il Perito Moreno (a destra) entra sicuramente nelle prime cinque posizioni. È il più famoso dei circa 350 giganti bianchi del parco nazionale Los Glaciares, una delle più grandi riserve d’acqua del pianeta, perché è uno dei rarissimi ghiacciai al mondo in avanzamento, scende dalle Ande e si tuffa letteralmente nel lago Argentino. È un muro impressionante, alto una sessantina di metri - riduce le navi, nell’impatto visivo, a giocattoli - e con un fronte di quasi cinque chilometri. Appena l’ho inquadrato sono rimasto sbalordito, senza parole. C’erano quindici gradi, eravamo a livello del mare e davanti a noi avevamo un mostro di ghiaccio. Più ci avvicinavamo più il ghiacciaio mostrava il suo splendore. Sì, splendore, perché il bianco colpito dai raggi solari diventa celeste fosforescente. Era una visione accecante con l’azzurro del cielo e il blu elettrico del lago. Ci sono passerelle che consentono di osservare il Perito Moreno da diverse posizioni. Il momento più emozionante è quando alcuni lastroni, scaldati dal sole, si staccano con un rumore sordo e precipitano fragorosamente nel lago provocando onde anomale e formando piccoli iceberg (FOTO 11 e 12). Io sono stato un’ora con la fotocamera fissa per inquadrare il fenomeno e, un minuto dopo aver desistito, è venuto giù un enorme blocco.... È stato un ultimo dell’anno indimenticabile.


Come ho già raccontato all’epoca, abbiamo salutato il 2005 in un ostello a El Calafate, cucinandoci la cena, in compagnia del... mondo (tra cui Braulio, un rasta spagnolo nomade da cinque anni) e di Mirco, Gabriele e Giordano, tre italiani di Cervia che in Sudamerica hanno percorso 2.700 km in bicicletta, da Bariloche a Ushuaia. Li ricordo con piacere perché sono persone positive con una grande gioia di vivere. Dopo la nottata in discoteca al ritmo di «reaggeton», il primo dell’anno non abbiamo oziato, ma l’infaticabile Land Cruiser ci ha scaricato a El Chalten, paesino polveroso e base per il trekking al Cerro Torre e al Fitz Roy, dove il numero di hotel supera quello delle case. Ci si arriva guidando su uno sterrato insidioso. Splendido l’ostello in legno. Non avendo molto tempo abbiamo unito in un giorno la camminata ai punti panoramici dei due massicci.

Sveglia con le nuvole, è caduta qualche goccia di pioggia, ma verso le 9 il cielo si è rasserenato, così ci siamo infilati gli scarponcini da trekking. Durante la camminata abbiamo rivisto un romano, Maurizio, compagno di baldoria a El Calafate, che ho intercettato per la terza volta nel Pantanal in Brasile. È un semiprofessionista del deltaplano ed era in Sudamerica per sfidare i maestri brasiliani a casa loro. Prima tappa alla Laguna Torre per contemplare il Cerro Torre ). Un’ora in salita e due ore di lunga camminata senza sbalzi d’altezza attraverso boschi di faggi e lungo il rio Fitz Roy ci hanno condotto al mirador El Torre da dove si ha una vista stupenda del Cerro Torre (3.128 metri), montagna con un profilo elegante che ricorda il Cervino, sfondo superbo all’immancabile laghetto. Dietro front per un pezzo e scarpinata di tre ore verso la Laguna de los Tres. Sul sentiero pianeggiante, che passa diverse lagune turchine e verdi smeraldo immerse nella vegetazione, riecco il bergamasco Luca Cudini, conosciuto a Ushuaia. Ci siamo però accorti che avremmo rischiato di rientrare a El Chalten con il buio e inoltre il cielo si era rannuvolato. Così abbiamo scrutato il Fitz Roy (3405 metri) da un punto panoramico un po’ più lontano, senza esaltarci, anche se è una montagna di un’imponenza rara. In totale, otto ore di trekking.
È stata una settimana da non scordare, una delle più elettrizzanti in assoluto del raid. E non capisco perché l’Argentina non sia considerata tra le mete più attraenti del mondo. Non ha il mare caraibico, è vero, ma per il resto è da dieci e lode. Da El Chalten tappa di trasferimento a Bajo Caracoles dove abbiamo dormito nell’unico punto di riferimento dell’area, quasi desertica: un hotel-ristorante-stazione dei pullman-centro telefonico-distributore, un classico, per la Patagonia. Strade esclusivamente sterrate, anche se ben mantenute, chilometri nel nulla, ma buon umore nel fuoristrada.... Da Bajo Caracoles a Coihaque due soste interessanti. La prima alle Cuevas de las Manos (foto sotto). Parlo di grotte, nascoste in una gola tra le colline, tempestate di incisioni rupestri, tra le più rilevanti della Patagonia essendo vecchie anche 9.300 anni. Ce ne sono sulle pareti esterne e all’interno per decine di metri. La curiosità è data dal soggetto della vena artistica dei primitivi: accanto a classiche scene di caccia, compare una serie infinita di impronte di mani, il cui significato è abbastanza nebuloso. C’è una mano con sei dita, probabilmente era affetta da una malformazione.

La copertina del libro «In Patagonia» è proprio un’immagine delle Cuevas de las Manos. Seconda sosta all’Estancia Telken, un’oasi nella steppa patagonica. Merenda con un panino e una birra e i gestori si sono rivelati tanto affabili e cortesi (dopo cinque minuti è comparsa sul tavolo un bandierina dell’Italia) da invitarci in un veloce tour della fattoria (21.000 ettari), nonostante non pernottassimo lì. Una volta era molto più fiorida, ma l’eruzione nel 1991 del vulcano Hudson, che è in Cile ma riversò tonnellate di cenere pure in Argentina, ha prodotto gravi danni uccidendo centinaia di capi di bestiame e la fattoria non si è ancora ripresa.
Siamo entrati per l’ennesima volta in Cile scalando con il fuoristrada uno dei confini più sperduti e meno trafficati, quello del passo Ingeniero Pallavicini-Puerto Ibanez (a fianco) con uno sterrato snervante nell’ascesa in terra argentina. Ci eravamo prefissati di esplorare i circa 500 km della Carrettera Austral e l’isola di Chiloé. La Carrettera Austral, o Ruta 7, non ha smentito la sua fama. È probabilmente la strada più selvaggia che ho percorso in Sudamerica, non tanto per lo sterrato, peraltro viscido per la pioggia, bensì per la natura. La strada (a sinistra) passa tra montagne aspre e innevate con cascate qua e là, ghiacciai, laghi, fiumi impetuosi, fiordi, canali, foreste pluviali temperate impenetrabili con alberi giganteschi e millenari. Ci sono foglie enormi che invadono le strada. L’Alerce è re della foresta, parente della sequoia californiana: ci sono esemplari vecchi 4000 anni e alti 50 metri, anche se sono ormai rari a causa della qualità del legname. Gli alberi più comuni sono i faggi australi, pure loro vittime del disboscamento. Ci sono punti in cui la caduta massi non è un’eventualità remota e i corsi d’acqua talvolta straripano inghiottendo parzialmente la strada.
Selvaggio e ruvido l’ambiente, ma placido e rilassante Puerto Puyuhuapi, minuscolo centro all’estremità del fiordo Seno Ventisquero, noto per le terme più famose del Cile. Pranzo nel ristorante Lluvia Marina, un gioiellino rustico, dove Stefano ha insegnato a una cameriera come si prepara un buon caffè espresso (sotto), e pernottamento a Casa Ludwig, uno chalet in legno pregiato con una splendida vista sulla baia. Una dimora ricca di charme, gestita da tedeschi, con una colazione rivitalizzante.

In paese ci sono case in lamiera o in legno che, nella nebbiolina della sera, sembrano finte, sbucate dal mondo dei balocchi. A Chaiten abbiamo abbandonato la Carrettera Austral salendo sul traghetto con il quale siamo sbarcati, dopo sei ore di mare abbastanza mosso, a Castro, la cittadina più interessante di Chiloé. Chiloé è un’isola purtroppo molto piovosa ma con un’atmosfera speciale, si respira un’aria di autonomia dal Cile, e Castro è famosa per la chiesa di San Francisco, la più pittoresca tra quelle totalmente in legno sparse su tutta l’isola, e per i sobborghi di casette colorate costruite sulle palafitte (nelle foto sotto, insieme alla chiesa, al centro e a una casetta caratteristica).


A Chiloé e più precisamente sul lungomare di Quellon, c’è inoltre l’ultimo km della Panamericana, l’arteria stradale che, sia pure assumendo nomi diversi, si snoda da Anchorage in Alaska fino in Cile (con un’interruzione in Colombia) e che io ho percorso a tratti. Non pensate a una strada europea, per lo più è a due corsie, una per senso di marcia, e l’asfalto non sempre è esente da buche. Quanto alle specialità culinarie, abbiamo gustato il curanto (uno stufato di pesce con patate e carne) e sull’isoletta di Quinchao le ostriche. Siamo stati intervistati da Hector Flores Morales, un giovane cronista de «La Estrella» di Chiloé, quotidiano che vende circa 10.000 copie, e al raid è stata dedicata addirittura una pagina con un servizio pure su Bergamo.
Ma l’esperienza più bella è stata l’intervista a Carlos Lincoman (a destra) nel viaggio di Compu. Ne ho parlato diffusamente sul giornale. Carlos Lincoman, 82 anni e spirito combattivo, è il leader dei capi indio dell’isola ed è in lotta da tempo con l’impreditore Carlos Pinera, candidato alle elezioni presidenziali (ma ko nel ballottaggio con Michelle Bachelet), considerato un usurpatore delle terre che storicamente sono sempre appartenute alle popolazioni indigene huilliches. Lincoman, perseguitato durante il regime di Pinochet perché comunista ma rocambolescamente sopravvissuto, ha parlato della natura come depositaria della verità e di come chi viva secondo natura sia nel giusto. Il problema delle generazioni future cilene è che il Cile, per mantenere il tenore di vita più alto del Sudamerica, sta bruciando le sue risorse naturali e si sta inquinando. Lincoman mi ha suscitato stima e tenerezza infinite, la sua tenacia e la sua saldezza morale sono incredibili. Eravamo in ritardo, ci attendeva Bariloche, e così non abbiamo potuto accompagnare Stefano a Santiago del Cile, dove aveva l’aereo per rientrare in Italia. Ci siamo salutati a Osorno, lui è salito su un pullman per Santiago dopo una gaffe colossale: ha consegnato armi e bagagli nel deposito della stazione, ha ingannato l’attesa in centro città, ma è ritornato in una stazione sbagliata sollevando un polverone e allertando i carabineros per tentare di recuperare quello che non era lì.... Io e Nicola abbiamo continuato il nostro viaggio rientrando in Argentina per visitare Bariloche e la regione dei sette laghi. Sulla strada un arcobaleno benaugurante.

Marco Sanfilippo

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