Pigna, un milione e 740 mila euro
Giallo sul pagamento in contanti

Fu una minaccia a originare il buco nero che ha inghiottito parte del denaro volatilizzato per l'affaire Venezuela? Oppure a processo qualcuno è venuto a raccontare menzogne? E i soldi, i 4 milioni e 400 mila euro di cui c'è traccia fino a un certo punto, in quali tasche sono finiti? Davvero rimbalzarono su traiettorie internazionali oppure si fermarono in Italia? È questo che deve accertare il dibattimento in corso al tribunale di Bergamo per una truffa che ha ferito sia per l'entità della somma che per le modalità della sparizione.

Per esempio, dove sono approdati il milione e 740 mila euro che la Pigna sborsò in contanti? L'omega di questo episodio è ancora tutto da scrivere, l'alfa invece lo ha forse fatto intravedere l'imputato Joseph Picone in aula. Secondo cui tutto nacque dall'ultimatum che nel novembre 2003 Carillo Pesenti Pigna, all'epoca presidente del Cda, pose ai consiglieri: o mi date tre milioni di euro oppure azzero il consiglio di amministrazione. È questo aut aut, secondo quanto ha raccontato Picone a processo, l'origine dell'uscita del milione e 740 mila euro dalle casse delle Cartiere Pigna.

«L'ingegner Paglia (all'epoca amministratore delegato di Pigna, ndr) chiese a me e a Battaglia di presenziare alla riunione del consiglio di amministrazione – ha ricostruito Picone –. C'erano Enrico Felli e Giorgio Berta (all'epoca consiglieri insieme a Giorgio Jannone assente, ndr), l'ingegner Paglia, la sua segretaria e l'avvocato Bellini Bressi (emissario di Carillo, ndr). Quest'ultimo disse che Carillo pretendeva tre milioni dei 13 che gli spettavano per la vendita di una centrale della Pigna ai francesi. E aggiunse che se non avesse ricevuto la somma, avrebbe sciolto il consiglio e revocato l'incarico a Paglia».

Nasce una discussione piuttosto accesa. «Felli e Berta erano contrari – ha raccontato Picone –, perché, tra l'altro, venne fuori che Carillo aveva una posizione debitoria nei confronti dell'azienda e un'elevata esposizione bancaria. Dopo due ore Paglia disse che lui vantava un credito nei confronti della Pigna di un milione e 740 mila euro e che avrebbe messo a disposizione quel denaro per tener tranquillo il presidente». C'è però un problema: Carillo pretende soldi in contanti. «Fu chiamata la dottoressa Riva (Maria Teresa, direttore amministrativo dell'azienda, ndr) e le fu ordinato di "cashare" (mettere a disposizione in contanti, ndr) un milione e 740 mila euro a favore di Carillo. I soldi furono poi consegnati a me. Due giorni dopo, insieme all'avvocato Battaglia e al suo autista Danilo Colarieti, li portai a Carillo al Grand Hotel Et de Milan».

Come giustificare l'uscita di una somma così cospicua, per di più in contanti? «L'ingegner Paglia mi chiese di firmare delle ricevute e mi chiese di dire che erano spese di rappresentanza per l'affare Venezuela», ha rivelato Picone, che – stando alla sua versione – acconsentì per continuare il rapporto di collaborazione con la Pigna e non veder sfumare l'affare legato al Plan Robinson. Picone a processo ha affermato che «lo sapevano tutti di questa uscita di denaro. Durante la riunione mi sembra, ma non ne sono sicuro, che fu avvertito telefonicamente anche l'onorevole Jannone». «Non è vero, non ero stato informato di quell'operazione – replica Jannone, interpellato dal nostro giornale –. Che io sia in buona fede lo dimostra il fatto che fui io a denunciare tutto, non appena sentii puzza di bruciato sull'affaire Venezuela».

L'avvocato Emilio Gueli, parte civile a processo per la Pigna, precisa invece che «quello a cui partecipò Picone non era un consiglio di amministrazione, ma una riunione informale» e che il «pagamento fu disposto da Paglia e il Cda si limitò a prenderne atto». Quel che è certo è che quel denaro contante da Alzano è partito. Era il novembre del 2003 e l'impressione è che le lancette di questo intrigo internazionale siano ancora ferme ad allora.

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