«Sciatori imprudenti mettono
a rischio se stessi e gli altri»

«Guarda lì, sotto la chiesetta della Manina. La neve è tagliata, si vede che è scivolata giù. Se ne è accumulata tanta, molto umida, ci ha piovuto sopra... Parte come niente. In una scala da uno a dieci, il pericolo valanghe oggi è undici». Non sarà un nivologo, l'alpinista Mario Merelli, ma così a naso qualcosina di montagna dovrebbe saperla.

E non si capacita nel vedere tante persone che in giornate come queste, in cui il sole splendente ha solo da poche ore preso il posto delle precipitazioni, anzichè mantenersi sulle piste battute rischiano la vita avventurandosi nel fuoripista o lungo canaloni inesplorati.

«La neve ha delle sue tempistiche di assestamento, possono volerci uno, due o quattro giorni, a seconda dei casi – spiega l'alpinista –. Se ha nevicato tanto, o se ci ha piovuto sopra, il manto bianco diventa una bomba. Bisogna tenerne conto. Adesso invece, magari il giovedì o venerdì nevica, il sabato esce il bel tempo e la gente parte, senza tenere conto del pericolo».
Anche ieri è andata così: se tanti sciatori sono rimasti a godersi il sole sulle piste, molti altri sembrano non aver resistito al richiamo del percorso alternativo. Proprio a Lizzola, tre scialpinisti ieri sono stati estratti da sotto la valanga che li aveva investiti.

«È andata bene, li abbiamo visti dalla seggiovia mentre venivano travolti e li abbiamo recuperati subito – racconta Dino Merelli, fratello di Mario e presidente di Sviluppo Turistico Lizzola –. Ma non sappiamo più come dirlo. Cerchiamo di dare consigli, mettiamo cartelli che vietano il fuoripista, ma quando va bene ti mandano a quel paese. Oggi alcuni ragazzi con lo snowboard hanno scavalcato la rete e ignorato i cartelli che separano il versante sicuro della montagna dalla zona in cui è sconsigliato avventurarsi. Con un comportamento così, ci si va a mettere consapevolmente in una situazione di rischio. Una noncuranza impressionante, nei confronti non solo della propria vita, ma anche di quella degli altri: tagliando la neve o sollecitandola con il proprio peso, non è possibile prevedere le conseguenze».

Il popolo della neve, tra ciaspolatori, «freerider» e scialpinisti che si affiancano ai classici appassionati di discesa, «è in forte espansione – prosegue Dino –. Il problema è che manca, in molti casi, una cultura della montagna, una consapevolezza dei possibili rischi. Rimanendo sulla pista, il pericolo è praticamente zero. Certo che è bello andare nel canalone, cercarsi la via alternativa, ma si può fare se ci sono le condizioni. Con una neve come questa, è come andare contromano in autostrada».

Che fare allora? Il consiglio è soprattutto uno: parlare con gli operatori della stazione, con la biglietteria, chiedere qual è lo stato della neve. «E se c'è da rinunciare, si rinuncia», sentenzia Dino. Che la montagna, in fondo, rimane lì: «Ci sono imprese per cui vale la pena correre qualche rischio – osserva l'uomo degli ottomila, Mario – ma su queste montagne, vicine a casa, dove possiamo sempre tornare, no».

E poi, la preparazione: «Bisogna agire con gradualità. All'inizio dell'inverno partire con qualche gita facile, allenarsi su itinerari belli e sicuri, e poi progredire piano piano. Forse io vengo da una generazione vecchia, ma ci avevano insegnato a tenere le gambe sotto il tavolo, quando era il caso. E lo scialpinismo si iniziava a fine febbraio, quando la neve era assestata». Adesso invece, sempre più spesso, «vedo mancare la voglia di conoscere, di chiedere. Partono spediti, con l'orologio per misurare il tempo. Invece il bello è gustarsi la gita, portarsi su un panino, prendersi il tempo per bere un caffè al bar e chiedere com'è la situazione. E nello zaino, prima di tutto, buonsenso e un po' di paura. Pochi alpinisti muoiono per sfortuna, la maggior parte sbaglia qualcosa. Tanti incidenti succedono perchè si è sottovalutata la situazione».

Oggi a Lizzola la pista di Sponda Vaga rimarrà chiusa. «Non perché sia in cattive condizioni, ma per paura del fuoripista – annuncia Dino Merelli –. I gestori degli impianti vivono con questo pensiero: noi curiamo le piste, le monitoriamo ora per ora, ma poi magari uno usa i nostri impianti per salire in quota, fa fuoripista e gli succede qualcosa. Il guaio è che in montagna il pericolo non lo vedi fino all'ultimo. E non servono trecento metri cubi di neve per restare sepolti, ne bastano tre carriole».

Ne sa qualcosa il fratello Mario, che per esercitarsi e prepararsi alle sue imprese sull'Himalaya ha dovuto provare anche a stare sotto il peso dei fiocchi: «Una sensazione tremenda, basta uno strato di venti centimetri e non ti muovi più. È come stare in un blocco di cemento».
Sulle strategie per prevenire incidenti che spesso sono dovuti ad atteggiamenti poco prudenti o all'inesperienza, i due fratelli non hanno dubbi: al primo posto c'è l'informazione.

«In città, se sono previsti cinque centimetri di neve scatta l'allarme, tutti lo vengono a sapere e si organizzano di conseguenza. Lo stesso deve accadere per la montagna: accanto alle previsioni meteo, in inverno va dato spazio alle condizioni della neve, al livello di rischio», dice Mario.

D'accordo il fratello: «Bisogna aiutare le persone a capire qual è il limite oltre il quale non si può andare. D'inverno, come d'estate, quando vedo gente salire al Curò con la canottiera e le scarpe da tennis. La montagna va conosciuta e rispettata. Ci sono dei limiti che non si possono superare».

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