Uno studente della Bocconi sottolinea:
«Attenzione a come l'Università ci prepara»

Uno studente della Bocconi interviene sul dibattito aperto sui giovani e il lavoro e pone l'attenzione sul mondo dell'università.

«Gentile redazione, scrivo a proposito della lettera inviata dalla laureata disoccupata. Io sono studente di laurea specialistica in Bocconi, dopo aver conseguito una laurea con 110 e lode presso l'università Statale di Milano in Scienze dell'amministrazione. Ho dovuto fare il passaggio non per la scarsa qualità dell'insegnamento impartito, ma perché la mia classe di laurea non dava accesso ai bandi pubblici, nonostante il corso fosse proiettato direttamente all'amministrazione pubblica. Ovviamente è un assurdo. A ciò si aggiunge il tema dell'università profondamente distante dal mondo del lavoro, poiché non crea contatti diretti e fatica a sviluppare start up o spin off da idee innovative e buone. Ad esempio il tema dello stage è vissuto spesso come adempimento formale per completare il piano degli studi e non invece un progetto di crescita e di inserimento nel mondo del lavoro. Inoltre secondo la mia esperienza la struttura bipartita rischia di trasformare la triennale in un gran liceo, concentrando un minimo di specializzazione nel biennio. Il triennio rischia in tal modo di diventare un parcheggiatore sociale per i giovani che non trovano lavoro con il rischio di abbassare anche la qualità media dell'insegnamento e dell'apprendimento. Sarebbe poi da aprire una grande discussione sullo scarso grado di internazionalizzazione e di qualificazione professionale della nostra università. Il tema pertanto della ragazza che pur avendo il massimo dei voti non riesce a trovare lavoro è assolutamente reale, ma non attiene solo al rapporto lavoro-istruzione. E' un problema dell'università certo che si ritiene generalmente non troppo qualificante e slegata dal mondo lavorativo, c'è ovviamente inoltre il tema crisi, ma credo che ci sia anche un aspetto critico relativo a un sistema italiano tutto proiettato sulla conservazione dell'esistente, incapace di assorbire anche un minimo tasso di innovazione se non in alcuni settori. E' la difesa di vecchi e nuovi privilegi che non consente ai giovani di ritagliarsi un ruolo nella società.

Mi permetto di chiudere con una piccola replica all'artigiano. Premesso che gli universitari non utilizzano il computer solo per chattare su face book, forse anche perché non se lo possono permettere, credo che le argomentazioni addotte implichino una ignoranza basilare su quello che è il mondo di universitario. Se non sei figlio di buona famiglia, studiare significa investire su sé stesso e quindi trovare un lavoro per mantenersi, cercare di superare con buoni voti i vari esami con la speranza di non rimanere troppo indietro e vedere vanificato il lavoro. Perché fin quando non hai in mano il pezzo di carta non conta molto l'impegno e il tempo speso e spesso il desiderio dello studente è difatti di avere un lavoro e una propria indipendenza. Essere universitari significa provare anche la frustrazione della ragazza che dopo aver fatto tutta la fatica di aver terminato gli studi, si ritrova ad avere un lavoro sotto le proprie aspettative ma soprattutto IN NERO, quindi senza prospettiva e possibilità di costruirsi un futuro. E questo aspetto è quello che mi ha scandalizzato di più e che nessuno ha rilevato. Ci vorrebbe un reciproco rispetto pertanto fra chi ancora oggi svolge lavori assolutamente nobili e decorosi come l'artigiano o la cameriera ,e chi crede che conoscenza e innovazione significa futuro e sviluppo».

Andrea Tiraboschi

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