«La crisi è quasi alle spalle
La città non lasci soli i giovani»

La faccia da secchione un po' ce l'ha. Lui argomenta: «La vita è una sola, e credo che le cose si debbano fare bene e con passione». A soli 39 anni, Filippo Stefanini è responsabile per l'unità di gestione Hedge Funds & Manager Selection di Eurizon Capital.

La faccia da secchione un po' ce l'ha. E lui non lo nega. O meglio, argomenta: «La vita è una sola, e credo che le cose si debbano fare bene e con passione». Diplomato al Lussana («Una scuola di vita, anni duri e con un ritmo molto elevato: l'imprinting è rimasto...»), laureato in Ingegneria gestionale (110 e lode, of course) all'Università di Bergamo, dove ha insegnato a contratto dal 2007 al 2011 Risk Management.

Per farla breve, a soli 39 anni, Filippo Stefanini ha un curriculum lungo così: sull'onda di un crescendo rossiniano ora è responsabile per l'unità di gestione Hedge Funds & Manager Selection di Eurizon Capital, società di gestione fondi di Intesa San Paolo. «Per i milanesi sono un bergamasco, per i miei amici bergamaschi sono un milanese...».

Pendolare?
«Un habitué dell'A4, la mia residenza principale. Sono nato a Massa Marittima, in provincia di Grosseto, ma mio padre è bergamasco: si è diplomato all'Esperia e lavorava per la Dalmine. Studiando e lavorando insieme si è laureato alla Cattolica e gli hanno offerto di trasferirsi a Piombino. Lì ha conosciuto mia madre, sono nato io e dopo 14 anni vissuti a Follonica è stato spostato ancora a Dalmine, dove ho vissuto fino al mio matrimonio. Ora abito a Stezzano».

Uomo della finanza, uno che si muove nei mercati: nell'immaginario collettivo sei un tipo da Wall Street?
«No, la mia attività non è la compravendita di titoli, ma la gestione di fondi d'investimento».

E sei un grande esperto di Hedge Funds: i tuoi libri hanno venduto oltre 16 mila copie in tutto il mondo.
«Vero, senza contare quelle che ormai trovi in pdf in rete».

Tolgo l'acca ad hedge: ottengo edge, lama. Avete voi il coltello dalla parte del manico in questa crisi infinita?
«La crisi nasce dai mutui subprime americani e diventa una crisi di sostenibilità dei debiti sovrani europei in una fase di recessione. Nasce dalla finanza ma si è trasmessa all'economia reale».

Mi ripeto, allora chi ha il coltello dalla parte del manico?
«Consideriamo che l'Italia, per il livello di debito che ha e per il fatto di essere in un'unione monetaria in cui ha rinunciato a stampare le lire, si trova a dover giocare con le regole della finanza. L'Unione europea è irreversibile ma ancora incompleta. Solo con un'unione bancaria, fiscale e politica si supererà questa crisi».

Ma l'Italia può giocarci in questo contesio?
«Le potenzialità ci sono, partendo da una solida rete imprenditoriale. E lo conferma lo scatto d'orgoglio di questi ultimi mesi».

Ma...
«C'è un indubbio problema di governance».

E anche una botta di tasse...
«Non credo sia il problema principale: gli imprenditori le pagano se messi nelle condizioni di lavorare. E anche i capitali stranieri, se non guardano all'Italia non è per la tassazione».

E per cosa?
«Per la latente incertezza su iter autorizzativi, procedure burocratiche, gestione di potenziali conflitti con fornitori o clienti. Il dibattito politico italiano dovrebbe vertere su come attrarre investimenti dall'estero in Italia».

Ascolta, Bergamo è una città per vecchi?
«Proprio no».

A volte si direbbe il contrario.
«Con un'Università di 15 mila studenti: non può esserlo. È una città di giovani in cerca...».

Di cosa?
«Di lavoro in un momento difficile, ma anche – e soprattutto – di qualcuno che li rappresenti. Ti faccio un esempio: i giovani non sono iscritti ai sindacati, e allora chi parla davvero di loro?».

Di certo Bergamo è una città di banche. Pensiamo ad Ubi, che per la gente resta la Popolare. Ecco, è ancora fondamentale l'aspetto territoriale?
«Sì. Salvo rare eccezioni, il sistema bancario è solido e le banche popolari sono fondamentali per il territorio. Molte stanno cercando di diventare glocal, muovendosi cioè tra locale e globale».

Però sembra prevalere il secondo aspetto. Un tempo in un paese tipo c'erano tre punti fermi: il sindaco, il parroco e il direttore della banca. Ora è tutto spersonalizzato.
«Sono le conseguenze di un mondo globale che ha cambiato ogni nostra abitudine e pure i modelli di business: oggi, per esempio, molti clienti preferiscono fare le operazioni on line con il loro tablet o smartphone».

Vero, ma questa spersonalizzazione ha fatto venire meno la fiducia: un tempo il cliente era una persona, ora un conto corrente. E questo ha creato una certa qual avversione verso le banche: a volte sembrano quelle che ti prestano l'ombrello se c'è il sole e lo rivogliono quando piove...
«Siamo sinceri: le banche non vorrebbero mai arrivare ad estremi come quello di pignorare casa. Sarebbero ben contente di poter incassare i crediti e prestare denaro a debitori affidabili».

Un tempo le imprese bergamasche erano considerate tali.
«Intendiamoci, qui c'è la spina dorsale del sistema produttivo nazionale che, grazie a Dio, ha una forte focalizzazione sulle esportazioni»

Ma se allarghiamo lo sguardo all'Europa siamo ancora competitivi?
«Questo è un altro discorso. Penso, per esempio, agli accordi fatti in Germania ad inizio anni '90 tra industriali e sindacati, quelli che a livello di contrattazione aziendale hanno legato i salari alla produttività. Il vero inizio del loro boom».

Quindi non siamo abbastanza produttivi nemmeno qui?
«C'è una cosa che l'uomo della strada non percepisce: dal 2000 ad oggi il costo unitario medio di un lavoratore italiano è salito del 20 per cento rispetto ad uno tedesco. Eppure non guadagna di più: è la produttività che è scesa rispetto al collega tedesco».

Scusa, bisognerebbe lavorare di più o meglio?
«O salgono gli stipendi dei lavoratori tedeschi o dobbiamo noi aumentare la produttività per essere di nuovo competitivi».

Da uomo della finanza, a che punto è la notte, sentinella? Insomma, la crisi...
«Il peggio dovrebbe essere ormai alle spalle: siamo in una fase di ripresa, credimi. Il pessimismo dilaga, ma noi che ogni giorno siamo sui mercati ci rendiamo conto che il peggio è davvero passato. Le regole del gioco sono cambiate quando il consiglio direttivo della Bce presieduto da Mario Draghi ha detto di essere disposto a comprare quantità illimitate di titoli di Stato di paesi in difficoltà, a certe condizioni. Certo, c'è ancora la possibilità che la Spagna chieda aiuto».

Eppure ti ricordi? La tigre celtica irlandese, la Spagna da copiare... Ma l'economia non è veloce?
«Sì, c'è troppa enfasi sul breve termine. Ma in realtà non esistono scorciatoie: bisogna andare avanti passo dopo passo. È una maratona, non uno sprint».

Molto bergamasco...
«Molto old economy».

Ma scusa, nel tuo mondo esistono davvero le figure alla Gordon Gekko, lo strepitoso Michael Douglas di Wall Street?
«Si dice che Oliver Stone si sia ispirato a Michael Milken, investitore spregiudicato dei primi anni '80: il passaggio dove dice che "l'avidità è buona" è preso da un suo discorso. Personaggi del genere ci sono, certo. Comunque nel film Gekko finisce in galera, non è un buon modello».

Però diceva che il denaro non dorme mai. È vero?
«La mattina sono in coda sull'A4 e guardo come vanno i mercati asiatici, subito dopo cominciano quelli europei e dalle 15,30 apre Wall Street. La sera alle 22 chiude il mercato americano, la domenica ci sono quelli mediorientali aperti. Ed addirittura il mercato dei cambi è aperto tutto l'anno. Penso che sì, un po' aveva ragione».

Dino Nikpalj

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