Pino Capellini iniziò a 19 anni
Ecco i suoi ricordi con don Spada

Pino Capellini cominciò a fare il giornalista nel 1958 per il bollettino delle Acli di Bergamo. Aveva diciannove anni. Ecco il suo percorso tra aneddoti e lezioni memorabili imparate dal direttore Spada.

«Era sera tardi, in città ci fu un piccolo incendio, andò a fuoco soltanto una botteguccia di calzolaio. Intervennero i vigili del fuoco, io venni a saperlo, chiesi informazioni, feci un pezzetto. Andai a casa, intorno alle due di notte come sempre. Al mattino mi svegliò mia moglie, mi disse che c'era il direttore al telefono, mi alzai, Don Spada mi gridò: "Ma che razza di giornalista sei!". Avevo bucato la notizia. Spada aveva saputo che nella bottega del calzolaio c'erano sette canarini, tutti e sette morti asfissiati. Quella era la vera notizia. È una lezione che non ho più dimenticato». Pino Capellini cominciò a fare il giornalista nel 1958 per il bollettino delle Acli di Bergamo. Aveva diciannove anni.

«L'11 marzo del 1959 - racconta - mi mandò a chiamare il direttore de L'Eco di Bergamo, don Andrea Spada, che mi affidò le cronache sindacali. Visto che lavoravo per le Acli, il passo era breve. Nel 1963 sono diventato giornalista professionista. A pensarci ora, quei tempi sembrano eroici. La mole di lavoro era immane perché eravamo in pochi, la redazione era formata da una decina di giornalisti. E si seguiva tutto. Dopo le cronache sindacali feci la cronaca nera e la giudiziaria. Era un giornale che preparavamo giorno per giorno, totalmente immersi nella quotidianità. E forse ci sfuggiva una consapevolezza profonda, un progetto. Il mio lavoro cominciava alle 10 quando andavo in tribunale, facevo il giro in procura. Allora erano importanti i rapporti personali. Poi toccava al giro di nera, alle due e mezza, appena dopo mangiato: questura, carabinieri, polizia stradale, ospedale... Nell'ufficio della guardia dell'ospedale si facevano passare tutti i referti, compresi i dieci giorni di prognosi per la distorsione della caviglia. Quando c'era un incidente mortale bisognava andare sul posto e bisognava tornare al giornale con la foto del morto, era tassativo. Una volta, in piena notte, mi toccò arrivare a Vigolo, era morto un alpino, abitava in una cascina isolata, arrivai là, tutto era spento, non c'erano telefoni. Tirai sassi alle imposte finché un anziano signore si svegliò, si affacciò. Poi scese, era il padre, ci disse "È la volontà del Signore" e ci diede la foto».

Pino Capellini racconta i suoi anni «da marciapiede», gli anni della cronaca più ruvida, coinvolgente, legata ai fatti forti della vita. Continua: «Non cenavo, rientravo a casa alle tre di notte, mia madre mi lasciava il pentolino sul fornello. Alle volte andavo da Pio, davanti alle poste, la pizzeria dove andavano quelli del Giornale di Bergamo... C'erano anche le cinque guardie notturne della città. Pio tirava giù la saracinesca, noi mangiavamo, poi tutti a casa, anche Pio che abitava in via Mazzini e in piena notte attraversava la città a piedi con la borsa piena dei soldi dell'incasso della giornata». Capellini racconta che il direttore don Spada voleva che tutti i suoi giornalisti stessero fuori dagli uffici a raccogliere notizie, ad assorbire la vita della città. Dice: «Poi per me è cominciata una seconda fase, quando ho maturato l'idea della bellezza di Città Alta. L'amicizia con Luigi Angelini e soprattutto con il figlio Sandro è stata determinante. Volevo capire. Ho passato due anni a esaminare le carte dell'archivio Angelini. Altri anni a leggere le delibere del consiglio comunale, dal Settecento fino al 1924. Volevo capire il perché di certe decisioni, come la città si fosse sviluppata in quel modo. Avevo e ho una grande passione per la nostra città. Avevo l'idea, e con me anche altri giornalisti, di potere contribuire alla crescita della società, venivamo fuori dalla guerra, da anni terribili, c'era una voglia incredibile di miglioramento. Sono orgoglioso di essere bergamasco, ma non nel senso del folclore campanilistico. Sono stato autore del primo libro sui burattini e i burattinai bergamaschi, ho visto questo patrimonio popolare come ricchezza, una chiave per comprendere la profondità dell'identità, della cultura bergamasca, non come una semplice gioppineria. Il giornalismo è indagine, è ricerca di verità, non cambierà mai, anche nell'era delle tecnologie istantanee. È essenziale capirlo».

P. A.

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