Quattro anni come direttore
Sergio Borsi racconta il suo «L'Eco»

Sergio Borsi è stato per quattro anni direttore de L'Eco di Bergamo, in un periodo importante, di grande cambiamento, dal 1996 al 2000.Anche lui giovedì riceverà la medaglia d'oro per i 50 anni di professione.

Quattro medaglie d'oro per quattro uomini che hanno segnato la storia del giornalismo bergamasco, aiutando a comprendere la realtà che ci circonda. Quattro medaglie d'oro per i cinquant'anni di professione a Sergio Borsi, Pino Capellini, Renato Ravanelli, Amanzio Possenti. Sergio Borsi è stato per quattro anni direttore de L'Eco di Bergamo, in un periodo importante, di grande cambiamento, dal 1996 al 2000.

Borsi, settantacinque anni, è milanese da generazioni e abita ancora a Milano, al secondo piano di un condominio Anni '70 dalle parti del Ponte della Ghisolfa. Ha lavorato per il Popolo, per l'Ansa, per la Rai. È stato segretario della Fnsi, il sindacato nazionale dei giornalisti.
Direttore, quale pensi sarà il futuro della professione?
«Per capire il futuro del giornalismo bisogna capire il futuro della tecnologia. È un percorso che negli ultimi dieci anni si è dimostrato sempre più collegato. È un momento forte, di passaggio, questo. Si espandono le fonti, le moli di informazioni. Ma qual è la qualità di questa grande massa di notizie? Quale l'attendibilità?».
Anche negli Anni Settanta si verificò un cambiamento tecnologico radicale nei giornali.
«È vero, entrarono in redazione i computer. Tanti compiti tipografici passarono ai redattori. Le tipografie cominciarono a svuotarsi. Allo stesso tempo dovemmo confrontarci con l'esplosione del mezzo televisivo che iniziò a trasmettere a colori e a tutte le ore. Questo provocò la morte quasi immediata dei quotidiani del pomeriggio: La Notte, il Corriere di Informazione...».
I quotidiani perdono copie, per alcuni settimanali si è verificato un crollo.
«Il fatto è che per sostenere l'urto di tv e radio che portano informazione continuamente, i grandi giornali hanno dovuto "settimanalizzarsi". Sempre più con l'avvento di Internet. Il discorso è diverso per i quotidiani locali». Che cosa ne pensi?
«Penso che abbiano molte più possibilità di futuro rispetto ai grandi quotidiani nazionali. Lo vediamo anche adesso: i quotidiani locali perdono copie, ma in misura limitata. La crisi che anche i giornali di provincia soffrono è dovuta al crollo della raccolta pubblicitaria».
È anche un discorso di cultura: o ci si accontenta di un'informazione superficiale o si avverte l'esigenza di fonti autorevoli e di servizi giornalistici approfonditi.
«Certamente. Ma da questo punto di vista la previsione diventa ancora più difficile: a che punto è la formazione culturale nel nostro paese? Incidono di più la televisione e Internet o la scuola? E la famiglia che parte assume? È un discorso di educazione al quale anche la stampa partecipa. La tendenza a gridare i titoli, a fare titoli che spesso non corrispondono al senso degli articoli di certo non rende un buon servizio al futuro del giornalismo. Fa vendere un po' di copie in più nell'oggi. Si avverte troppo questa necessità dello scoop, dello stupire il pubblico. Pericoloso».
Come ha iniziato Sergio Borsi a fare il giornalista?
«Lavoravo per le Acli, facevamo il settimanale di Milano. Era il '61 o il '62, Aldo Moro volle fare la redazione milanese del quotidiano della Democrazia Cristiana, "Il Popolo". Mi chiamarono e io accettai... La redazione milanese chiuse nel giro di poco. Io venni assunto all'Ansa, in piazza Cavour. Poi ho lavorato all'Avvenire, alla Rai di Milano, di Roma, di Torino... Mi piace ricordare che nel periodo in cui ero responsabile del centro di produzione di Torino videro la luce programmi come "Leonardo", il quotidiano scientifico, e "Ambiente Italia"».
E poi sei approdato a L'Eco di Bergamo.
«Mi chiamò Gianni Locatelli, che era mio amico ed era stato presidente della Rai e direttore del Sole 24 Ore. All'epoca era consulente della Sesaab. Io mi dissi interessato. Allora entrai in contatto con il presidente della Sesaab, Enzo Sensi».
Che ricordo ti è rimasto?
«L'idea di avere fatto un gran lavoro. Facemmo fare un sondaggio a Nando Pagnoncelli, emerse che il 63 per cento dei bergamaschi leggeva soltanto L'Eco. Allora pensai che bisognasse fornire un prodotto completo, un giornale locale, ma di respiro nazionale. E così aumentarono gli approfondimenti, articoli di nostra produzione anche su fatti internazionali con corrispondenze anche da Parigi, Mosca, New York... Confesso che provai un'emozione forte quando andai in visita alla sede dell'Onu a New York insieme ai Bergamaschi nel mondo. Al piano riservato alla stampa, su una porta a vetri, c'era una targhetta, stava scritto: "L'Eco di Bergamo"».
Paolo Aresi

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