Il racconto della sorella Rosanna:
«Così Floralba sacrificò la vita»

«L'Africa era ormai il suo vero mondo, a cui ha offerto la sua vita, opera, fede e carità. Quando tornava qui da noi a Pedrengo, la sua mente era sempre a Kikwit. Ci aveva detto che, alla sua morte, non voleva essere sepolta in Italia, ma in terra africana».

«L'Africa era ormai il suo vero mondo, a cui ha offerto la sua vita, opera, fede e carità. Quando tornava qui da noi a Pedrengo, la sua mente era sempre a Kikwit. Ci aveva categoricamente avvisati che, alla sua morte, non voleva essere sepolta in Italia, ma in terra africana. Ha molto amato l'Africa e la sua gente, ma è stata altrettanto riamata». Rosanna Rondi ricorda così la sorella suor Floralba, la prima delle sei Poverelle a cadere vittima del virus Ebola il 25 aprile 1995 nell'ospedale di Kikwit, nell'attuale Repubblica democratica del Congo, all'epoca chiamata Zaire.

Perché sua sorella aveva scelto l'istituto del Palazzolo?
«Da ragazza lavorava in filanda, ma parlava sempre delle missioni, fino a decidere di entrare nelle Poverelle: diceva che erano molto vicine ai più poveri e bisognosi. Poi era diventata infermiera diplomata, con una specializzazione nelle malattie tropicali, ottenuta ad Anversa. Dopo la notevole esperienza accumulata in tanti anni, faceva anche il chirurgo, quando era necessario. Quando morirono le suore, alcuni giornali scrissero che a Kikwit mancavano strutture sanitarie idonee e si lavorava nell'insicurezza. Questi giornali non sapevano che agli ospedali, benché fossero statali, non arrivavano sussidi e conseguentemente le strutture erano quello che erano. Forse che le suore dovevano respingere i malati?».

Quando sua sorella tornava in paese, raccontava del suo apostolato?
«È stata a Kikwit per ben 43 anni e fu una delle prime religiose ad avviare la casa locale. Ci parlava dei suoi giorni fra i malati in ospedale, dei tanti bisogni e della grande povertà, ma evitava di parlare della situazione politica. Quando era fra noi, che abbiamo una azienda agricola, e vedeva i sacchi di pane duro, diceva: "Ah, se li avessi per i miei bambini!". Anche quando tornava a Pedrengo la sua mente era in Congo».

Lei ha visitato la missione di Kikwit.
«L'opera delle suore ha dell'incredibile: sono autentiche sante del nostro tempo per carità, disponibilità e testimonianza».

Quando ha ricevuto la notizia della morte di sua sorella?
«Il giorno stesso, il 25 aprile 1995. Stava male da un po' di giorni, ma si pensava alla malaria e non al virus Ebola. Io e un'altra mia sorella siamo partite subito per Kikwit, i casi di contagio erano ancora pochi. Poi è scoppiata l'epidemia. E malgrado i pericoli, le suore hanno continuato a prodigarsi per i malati, incuranti dei rischi».

Cosa ricorda dei funerali di sua sorella?
«Furono celebrati, nella particolare liturgia africana con canti e tamburi, nella Cattedrale di Kikwit dal vescovo diocesano, che all'omelia ha elogiato l'opera di mia sorella. La gente presente era tantissima e parlava con affetto e riconoscenza di mia sorella. Tutto questo ci ha molto consolato. E soltanto dopo la sua morte abbiamo scoperto anche la sua ricchezza spirituale: ci hanno detto che, dopo ore di sala operatoria, entrava in chiesa, dove si fermava anche per delle ore per pregare il Signore a cui aveva offerto la sua vita. A chi la invitava a riposarsi un po', rispondeva che pregare era la sua forza di vita».

Anche la comunità di Pedrengo ha posto un segno per ricordare questa sua figlia.
«Accanto alla chiesa è stata collocata una lapide con incisi anche una frase del Beato don Luigi Maria Palazzolo e l'invito alla comunità di Pedrengo a ricordare, ascoltare e prendere a modello la mia povera sorella, vittima della carità».
Carmelo Epis

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