Bergamo e il terrorismo
«Memoria corta sugli anni '70»

Il terrorismo raccontato ai ragazzi che negli Anni '70 non erano ancora nati. Ha senso? Sì, perché in un Paese dalla «memoria corta» o della «non memoria», è bene recuperare un percorso di riflessione e analisi.

Il terrorismo raccontato ai ragazzi che negli Anni '70 non erano ancora nati. Ha senso? Sì, perché in un Paese dalla «memoria corta» (citando Nicola Cavaliere, allora capo della Mobile di Bergamo, oggi vicedirettore dell'Aisi, ex Sisde) o della «non memoria» (il magistrato Tino Palestra dixit), è bene recuperare un percorso di riflessione e analisi.

No, «perché le cose cattive vanno dimenticate, e il terrorismo si può derubricare a cronaca, non è storia», sostiene l'avvocato Roberto Magri, uno dei difensori durante il processone che smantellò Prima Linea. Le posizioni - interpretate da diversi protagonisti, e su diversi fronti, degli anni di piombo a Bergamo - si sono confrontate ieri in un convegno organizzato dal Rotary Club Bergamo Ovest, presieduto da Cristina Moro, davanti agli studenti del liceo Mascheroni.

Si parla di «un altro mondo», ammettono i relatori, fatto anche di «carta carbone, di dattiloscritti, di intercettazioni quando non c'erano nemmeno le celle per agganciare i cellulari», ma il cui spettro si aggira ancora tra noi. Evocato, a torto o a ragione, anche per i recenti spari davanti a Palazzo Chigi. Ma perché, nel decennio che va dal 1975 al 1985, la violenza eversiva attecchì «in maniera radicale, pervasiva e continuativa», nuotando in un'acqua molto vasta di contiguità, proprio in Italia, e anche a Bergamo?

Le cause economiche e sociali sono indagate a livello generale da Roberto Chiarini, storico ed editorialista de «L'Eco», e da Carlo Fumian, ordinario di Storia contemporanea all'Università di Padova; a livello locale da Matteo Rossi, consigliere provinciale, autore del libro «Il terrorismo dimenticato» che dà il titolo al convegno.

La fine del grande ciclo espansivo post bellico, il blocco politico, la crisi culturale e dei partiti favorisce il gerarchizzarsi della contestazione antiautoritaria all'insegna del modello marxista-leninista e il suo sfociare essenzialmente in due direzioni: le Brigate Rosse, con un impianto militare a compartimenti stagni, e Prima Linea, più movimentista e aperta, quindi più vulnerabile.

È facile, per semplificare, scivolare «dal movimento studentesco o da un certo mondo cattolico» alla violenza (come testimonia dal pubblico Giorgio Gori che visse quegli anni da studente). Alle spalle dei relatori corrono le foto in bianco e nero e i titoli dei giornali dell'epoca.

È il vicedirettore de «L'Eco» Franco Cattaneo a puntellare il lungo viaggio nella storia (durato oltre tre ore) con le date spartiacque: dalla strage di piazza Fontana del 1969, passando per il rapimento e l'uccisione di Aldo Moro nel 1978, per arrivare l'anno dopo all'omicidio del brigadiere di Città Alta Giuseppe Gurrieri.

E ancora, nel 1980, l'assassinio del giudice bergamasco «riformista e garantista» Guido Galli e del giornalista del Corriere Walter Tobagi, fino alla svolta, sempre nel 1980, con l'arresto di Michele Viscardi, il pentito che dà il via all'operazione di smantellamento di Prima Linea, culminata con il processone, che ha inizio nel dicembre 1981.

Proprio il «caso Viscardi» apre il dibattito sui pentiti (che, insieme ai dissociati e agli irriducibili compongono la «trilogia» dei terroristi). A trent'anni di distanza l'allora magistrato Gianfranco Avella ricorda «la Bibbia regalata a Viscardi e la torta al supertestimone».

«Le mamme degli arrestati - racconta Avella - venivano tutti i giorni nel mio ufficio per insultarmi. Ma, nel rispetto della legge, abbiamo aiutato tutti i ragazzi, non solo i pentiti; li abbiamo recuperati al sociale e al civile, non li abbiamo mai visti come avversari o nemici. Il nostro unico obiettivo era l'annientamento del fenomeno, non abbiamo mai torto un capello a nessuno».

Palestra fa infatti presente «la qualità della collaborazione dei pentiti, che non avevano alcuna aspettativa sullo sconto di pena, perché non c'era ancora una legislazione a riguardo, nata poi anche sulla spinta di quegli anni». Spezza una lancia a favore dei pentiti anche Roberto Bruni, che, allora ragazzo, proprio al processone, si fece le ossa come difensore: «La loro non fu una scelta solo sul piano utilitaristico, ma anche una pulsione per evitare che lo sbaglio fatto, riconosciuto come tale, si perpetrasse».

Gino Gelmi, rappresentante di «Carcere e territorio», cita la lettera scritta dai dissociati in carcere nel 1982, interpellando la città a occuparsi della casa circondariale: «Diedero impulso all'interesse di Bergamo per le condizioni del carcere». E aggiunge: «La memoria non può essere delegata ai magistrati o agli storici. La politica ha una grossa responsabilità nel decifrare gli Anni '70».

Dopo qualche scintilla (innescata dal giornalista Giangavino Sulas) su terrorismo e violenza politica (sono diverse facce della stessa medaglia o no?), l'appello finale di Avella ai giovani: «La violenza non è mai legittima, teniamoci cara la nostra democrazia».

Benedetta Ravizza

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