Fs, Feltri junior boccia la piazza:
«Sembra un parcheggio»

«Diciamocelo chiaramente senza tanti giri di parole: quel piazzale della nuova stazione è delirante: a me fa pensare a un enorme parcheggio di un centro commerciale». Mattia Feltri non usa mezzi termini per commentare il restyling di piazzale Marconi.

«Diciamocelo chiaramente senza tanti giri di parole: Bergamo ha proprio nel suo Dna l'incapacità di progettare e organizzare gli spazi pubblici. Quel piazzale della nuova stazione è delirante, una desolazione: a me fa pensare a un enorme parcheggio di un centro commerciale». Parole di un bergamasco che nel Dna ha la causticità arcinota del papà, Vittorio Feltri: Mattia, il Feltri junior (ormai si dev'essere abituato a essere chiamato così) oggi caporedattore e inviato a «La Stampa» (redazione romana), sposato, due figli, non usa mezzi termini, per commentare il restyling di piazzale Marconi.

«Direi che è di una desolazione infinita, il colpo d'occhio dello spazio vuoto è quello di un quadro di De Chirico, ma di quelli riusciti malissimo, però. E comunque, leggendo quello che sta succedendo in questi giorni ai pendolari, alla marea umana che rischia la vita per entrare in stazione, al senso di desolazione si aggiunge il ricordo degli anni da incubo vissuti quando anch'io ero tra i tanti che prendevano il treno per andare a Milano. Inizi di giornata orribili, da film del terrore, che non ho mai dimenticato». Quando si dice che certi choc segnano la vita. «Proprio così. E oltre vent'anni dopo da quando, prima per andare all'Università e poi per raggiungere la redazione de "Il Foglio", salivo su quelle carrozze di ferraglia fredda, puzzolenti e zozze, non è cambiato proprio nulla. Non solo per le condizioni dei treni: io non riesco più a metterci piede, sui treni della linea Milano-Bergamo, memore di quei viaggi da incubo vissuti da ragazzo».

Sembrano proprio ricordi inquietanti, visti i toni da tregenda che Mattia usa per raccontare i suoi viaggi quotidiani. «Lo sono proprio. Al punto che se mi capita di tornare, ormai raramente, a Bergamo da Roma, dove abito assai felicemente da 9 anni, quando arrivo a Milano con l'Eurostar preferisco farmi venire a prendere in Centrale dalle mie sorelle o da qualche amico piuttosto che anche solo valutare la possibilità di salire su una carrozza per Bergamo. Rischierei di impiegare quasi lo stesso tempo che ci vuole per arrivare, in treno, dalla Capitale a Milano». E allora sentiamolo, almeno uno di questi ricordi terribili della vita da pendolare di Feltri junior. «Una sera d'inverno avevo preso il treno per tornare a Bergamo, come tutti i giorni, dopo una giornata in redazione a "Il Foglio". A un certo punto il treno si è fermato in campagna, nel nulla. Un treno gremito di gente, di lavoratori che non vedevano l'ora di essere a casa, bloccato in mezzo al niente: ci hanno tenuti al buio, al freddo e senza un minimo di informazioni per ben più di un'ora. Poi un annuncio flebile: il treno si era fermato perché c'era un guasto sulle linee aeree. Nient'altro, nessuno che compariva a spiegarci qualcosa in più, a controllare se qualcuno stesse male, a dirci quando si ipotizzava di poter ripartire. L'attesa si protrasse, e comparve pure un controllore. Ricordo che pensai: ora questo lo linciano. Un passeggero, alla richiesta di esibire il biglietto, gli rispose per le rime: "Il biglietto? Si metta tranquillo, glielo do tra 80 minuti, con lo stesso ritardo che ha accumulato il treno". Alla fine, arrivammo sa Dio come a Bergamo. Tornando a casa, riflettei sul fatto che da parecchio tempo ormai perdevo almeno 4 ore al giorno, tra andata e ritorno, per prendere il treno, salirci, e viaggiare, pure male, e arrivare quasi sempre in ritardo. Credo che lì maturò la mia decisione: non avrei più fatto il pendolare. E mi cercai casa a Milano».

Per saperne di più leggi L'Eco di Bergamo del 13 ottobre

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