Seconde generazioni e cittadinanza
La storia di Ervin: io Rom, amo Bergamo

Ervin Bajrami ha quasi 22 anni, la pelle olivastra e profondi occhi scuri. «Io mi sento italiano, ho trascorso metà della mia vita a Bergamo, dopo aver abbandonato il mio Paese in guerra. Amo questa città, mi sento bergamasco».

Ervin Bajrami ha quasi 22 anni, la pelle olivastra e profondi occhi scuri. «Io mi sento italiano, ho trascorso metà della mia vita a Bergamo, dopo aver abbandonato il mio Paese in guerra. Amo questa città, mi sento bergamasco. Se anche volessi tornare indietro, non avrei nulla: né una casa, né parenti, né amici». Basterebbero queste parole pronunciate tradendo l'emozione, per comprendere l'importanza del dibattuto sul tema delle seconde generazioni e della cittadinanza.

Ervin, nonostante la giovane età, è molto lucido: «Io ho voluto e voglio integrarmi nel mondo in cui sono arrivato: non è sempre stato semplice, anche se ho incontrato persone accoglienti». Nessuna pretesa a senso unico da questo giovane che vive, dal punto della appartenenza culturale, una situazione complessa: «Nato in Kosovo, non solo sono straniero: la mia origine Rom è percepita con maggiore sospetto e diffidenza. Ai Rom si pensa come quelli che rubano, che chiedono l'elemosina, addirittura ricordo che rimasi colpito quando sentii dire che rapiscono i bambini. Rispetto alla mia origine, anch'io mi rendo conto di avere sentimenti contraddittori. In realtà il popolo Rom è costituito da tanti gruppi di etnia e religione diversa. La mia famiglia è kosovara e siamo musulmani. Vivevamo a Pristina, ma non siamo mai stati nomadi e mai abbiamo abitato nei campi».

La storia di Ervin da un lato mostra il desiderio di integrazione e di non essere «etichettato», dall'altro la consapevolezza che «le origini sono importanti e non si devono rinnegare, ma vorrei – dice Ervin – che i comportamenti di alcuni non danneggiassero altri. Quando leggo di alcuni fatti di cronaca in cui i Rom sono protagonisti negativi, un po' mi vergogno».

Per saperne di più leggi L'Eco di Bergamo del 28 ottobre

© RIPRODUZIONE RISERVATA