È il Giorno della Memoria
«Noi ebrei, salvati a Peia»

Non erano pochi gli ebrei nascosti in val Gandino: si trattava per lo più di ebrei stranieri già lì confinati, ma erano presenti anche ebrei italiani passati in clandestinità. Sergio Padoa è uno di loro.

Non erano pochi gli ebrei nascosti in val Gandino: si trattava per lo più di ebrei stranieri già lì confinati, ma erano presenti anche ebrei italiani passati in clandestinità. Sergio Padoa, uno di loro,.

Classe 1931, è il primo dei tre figli di Marcello e di Giuliana Orefice. «I miei genitori erano ebrei, ma non erano osservanti, nessuno dei due, mio padre un po’ di più, ma mia madre assolutamente non si interessava, mia nonna si proclamava libera pensatrice e mia madre anche, mio padre invece era di famiglia più religiosa...».

La famiglia Padoa vive a Bologna dove Marcello è avvocato; Sergio frequenta le scuole statali, ma dopo l’emanazione della legge razziale n. 1390 del 5 settembre 1938 è costretto a lasciarle. Nel 1940 i Padoa si trasferiscono a Milano, che conta una presenza ebraica di circa 11 mila persone ed è inoltre la città di origine di Giuliana.

Nel 1942 per sfuggire ai bombardamenti la famiglia Padoa «sfolla» a Viadana in una proprietà della famiglia di Giuliana. Nell’estate del 1943 si spostano a Sestole nell’appennino modenese, ed è lì che si trovano l’8 settembre. «Quando sono cominciate le voci di deportazione, però noi si era lì sul chi vive per vedere cosa succedeva».

«Siccome lo zio fratello di mio padre era ospite a Gandino del medico dottor Zilioli, che aveva una casa piuttosto grande quindi aveva possibilità di ospitare, lui ci ha fatto venire lì a Gandino». Il viaggio di trasferimento si svolge senza incidenti, anche se non mancano i momenti di ansia: nella stazione di Milano i tedeschi e la polizia controllano i documenti, è la prima volta che le false identità vengono messe alla prova, e Sergio ricorda ancora quel controllo come il momento di maggior paura e pericolo.

La casa del dottor Zilioli, in pieno centro di Gandino, non è il rifugio idoneo a nascondere le identità di ben due famiglie ebree: l’eccessiva umidità mette a rischio la salute dei bambini; tramite il parroco di Gandino, monsignor Giovanni Maconi, viene contattato il parroco di Peia, don Giovanni Brozzoni, che trova per loro un appartamento in affitto a Peia Alta, in via Croce Ina, nella casa di Francesco e Ida Marinoni.

L’identità ebraica dei nuovi inquilini viene però taciuta, per tutti essi sono semplici sfollati provenienti da Ancona, e il segreto sulla loro reale identità fornirà una valida protezione fino alla fine della guerra: «Conducevamo una vita normale, senza particolari precauzioni, siccome c’erano dei partigiani lì sopra la montagna, ogni tanto c’erano delle perlustrazioni da parte dei repubblichini per cui c’erano anche dei controlli nelle abitazioni, però non abbiamo avuto particolari seccature».

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