«Il momento più emozionante?
Salvare una bimba di 18 mesi»

La scelta di Federica è stata di partire, di mettere la sua professione al servizio dei migranti che dalle coste africane si lanciano in un viaggio disperato, in fuga dalla fame e dalla guerra, in cerca di salvezza.

Federica Bruni, 34 anni, pediatra dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII, consigliere comunale, figlia dell’ex sindaco, ha lasciato a casa tutto ciò, ha portato con sé solo il camicie bianco ed è salpata insieme all’operazione Mare Nostrum della Marina militare. Un’esperienza che tra momenti dolorosi, attimi emozionanti e aneddoti buffi, l’ha cambiata per sempre, sia come medico che come donna. «Un giorno ero in pronto soccorso – racconta Federica Bruni, già volontaria nell’ospedale della capitale del Burkina Fasu – e mi sono resa conto di come a volte questo lavoro sia pregnante dal punto di vista umano e medico. Mi sono decisa a inviare una mail alla Fondazione Rava di Milano e dopo un colloquio, sono partita». Prima dal 30 luglio al 10 agosto e ancora dal 12 al 21 settembre, rinunciando alle ferie. È stata mandata a bordo della fregata Aliseo, 130 metri di nave, equipaggio di circa 200 persone, una quindicina donne e lei unica civile: «Ho potuto portare con me solo una sacca morbida e degli scarponcini. Mi immaginavo un traghetto, invece mi sono trovata davanti una nave con tanto di scaletta e boccaporto».

Tutto inizia con un annuncio dall’altoparlante: «Prepararsi al ruolo assistenza naufraghi». Da quando parte l’elicottero, ci sono due ore per allestire hangar e ponte di volo «con l’infermeria, gli scatoloni con i medicinali e i fili che sorreggono le flebo. Poi arrivano in gruppi di venti e, dopo l’identificazione e la perquisizione, inizia lo screening per distinguere chi ha bisogno di assistenza e chi no. I siriani sono in migliori condizioni, affrontano un viaggio meno faticoso e vengono da stili di vita simili ai nostri. I subsahariani stanno peggio, arrivano con anni di malattie trascurate dopo aver attraversato il deserto in mesi di viaggio».

È il momento più delicato, in cui ci si trova a dover prendere decisioni coraggiose: «Mi è capitato di soccorrere una bambina di 18 mesi, Banaa, era in choc da disidratazione per una diarrea ematica molto grave, stava entrando in coma. Ho dovuto scegliere se mettere in pratica una procedura molto invasiva e dolorosa. E l’ho fatto: ho eseguito una intraossea, un ago nella tibia per arrivare al letto vascolare». Stabilizzata è stata trasferita con una motovedetta della capitaneria di porto all’Ospedale di Catania: «Poi sono andata a trovarla e ho capito di averle salvato la vita, la mamma mi ha ringraziato e siamo ancora in contatto». L’emozione a volte ha rotto anche i formalismi militari: «Quando abbiamo sbarcato un gruppo di migranti a Reggio Calabria, le donne eritree si sono messe a cantare, si riuscivano a distinguere delle parole, come Italie. Erano canti di ringraziamento per noi e per Dio, perché finalmente erano in salvo. Avevamo tutti le lacrime agli occhi».

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