In reparto sofferenza indescrivibile
Ilenia: «E non è ancora finita»

Ilenia Pirola, di Madone, internista ai Civili di Brescia da febbraio è nelle prime linee. Ha rimediato una frattura alla mandibola per una caduta per stanchezza. E ora dice: «Non è ancora finita»

«Ilenia mola mia» è diventato il suo motto. Ilenia Pirola, di Madone, laureata in Medicina a Brescia, specializzata in endocrinologia,lavora da quasi vent’anni agli Spedali Civili e da fine febbraio cura i malati dell’emergenza Covid-19 nell’ospedale bresciano.

«Bergamasca di origine e nel cuore (ancora non ho cambiato la mia residenza, tanto sono legata alla mia terra), 43 anni, specialista in endocrinologia, lavora nel reparto di Medicina Interna ad indirizzo Endocrino Metabolico diretto dal professor Maurizio Castellano. La lotta contro il coronavirus agli Spedali Civili di Brescia è iniziata verso fine febbraio.

«All’improvviso siamo stati travolti da ondate di ricoveri di persone che da giorni accusavano febbre iniziando a non respirare bene. Da un giorno all’altro ci siamo trovati catapultati davanti a qualcosa di mai visto. Giornate intere di turni no stop, in assenza di riposi e recuperi, giornate in cui, varcata la soglia del reparto, si pregava e sperava di ritrovare ancora vivi i propri pazienti, in cui si scongiurava che i rilevatori di ossigeno (i saturimetri) non suonassero l’allarme di insufficiente saturazione perché, in certe giornate nere, non avevamo la certezza di poter garantire a tutti una possibilità di intubazione. Molti di noi hanno proseguito a lavorare con polsi fratturati per cadute legate alla stanchezza, io personalmente con la frattura della mandibola, imbottita di antinfiammatori».

La dottoressa Pirola ricorda bene anche i pazienti che si ritrovavano ad essere isolati dentro una stanza singola, doppia o tripla. Totalmente isolati dalle restanti stanze. «I più attivi e tecnologici riuscivano a mantenere un collegamento con l’esterno grazie ai propri cellulari, ma molti si ritrovavano ad avere solo noi medici come punto di riferimento. Per tanti di loro sentire le nostre voci era come sentirsi a casa, molte volte per evitare che si potessero disorientare cercavo di acquistare i giornali quotidiani per mantenerli aggiornati con il mondo esterno». E i parenti? Le famiglie? «Altro dramma nel dramma che stavamo vivendo. Il proprio caro ammalato ricoverato in un “bunker inaccessibile”, separato dalla propria famiglia: unico collegamento il trillo di una telefonata.

Ogni giorno e a volte, nei pazienti più critici, più volte al giorno, ci si ritrovava a chiamare i parenti per metterli al corrente dell’andamento clinico». La sofferenza che medici e infermieri hanno dovuto sopportare e supportare in quelle giornate è « indescrivibile». «Anche noi medici siamo persone, fatte di carne ed ossa ma anche e soprattutto d’anima spiega Pirola –. Ogni volta che un malato seguito con tutta la massima attenzione finiva per avere un decorso nefasto era una sconfitta umana prima che clinica. Abbiamo dato tutte le nostre energie, e molti dei miei colleghi si sono ritrovati anche loro infettati, ricoverati, intubati. I miei genitori lontani 70 chilometri, vulnerabili quanto i pazienti ricoverati. Ogni sera con le videochiamate poter parlare con loro mi ricaricava le pile».

E oggi? «Non è ancora finita, non è ancora tempo per abbassare la soglia dell’ attenzione. Siamo sempre in prima linea oggi come ieri. Fino ad una settimana fa oltre 400 posti del nostro ospedale erano ancora a disposizione per i pazienti affetti da Covid. Ancora oggi si muore a causa del Covid e delle sue complicanze. Non è vero che il virus è cambiato, Il Covid c’è e può condurre alla morte chiunque (giovane o meno giovane): non guarda veramente in faccia a niente e nessuno. A differenza di ieri, oggi sappiamo qualcosa in più, abbiamo qualche strumento per contrastarlo e contrastare le sue complicanze; l’abbiamo acquisito dall’esperienza e dalla cooperazione mondiale di tutti colleghi medici. A chi nega ancora oggi l’esistenza del Covid , a chi si preoccupa perché non potrà sciare, a chi non potrà festeggiare il cenone in compagnia vorrei dire che esattamente tre giorni fa hanno intubato un mio collega. Questa è la realtà, purtroppo».

«Che cosa mi fa andare avanti, nonostante tutto? – conclude la dottoressa madonese –. La passione per la mia professione, la disponibilità e la forza del lavoro di team di tutto il personale medico e paramedico, ma soprattutto, io credo, le mie radici, la tempra bergamasca, quella che mi dà la carica con il motto “mola mia”».

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