Intervista a Mario Monti. Politici cinici e ignoranti, così l’Europa non va lontano

«Ci lavano il cervello con secchiate di “sovranità” e “nazione”» perché si vuole ostacolare una Ue vitale per noi e per i nostri figli «ma scomoda per i loro interessi».

Sovranismi, ma non solo. Anche un discreto pacchetto di capi di governo che usano l’Europa per interessi personali mascherandoli dietro quelli nazionali, e una buona dose di politici ignoranti e cinici che trasformano i Paesi dell’Unione «in colonie di regimi autoritari extraeuropei». Mario Monti - già Commissario europeo a Bruxelles dal 1995 al 2004 e Presidente del Consiglio italiano tra il 2011 e il 2013 - di Europa se ne intende, e quella che vede profilarsi all’orizzonte non può che destare forte preoccupazione in un politico e in un economista che ha fatto dell’Unione europea il «filo rosso» della propria vita. Certo, l’Europa ha le sue colpe, e Monti non le nasconde, anche se all’origine dei mali della Ue c’è il prevalere di interessi di partito anziché il bene comune dei cittadini europei. E in tutto ciò, l’Italia non brilla certo per capacità e lungimiranza, grazie a una leadership «ignorante in storia, arrogante nelle relazioni internazionali e divisa al suo interno».

Cos’è l’Europa per Mario Monti?

«L’Europa è stata il filo conduttore della mia vita civile e professionale. L’integrazione europea l’ho studiata, insegnata, spiegata all’opinione pubblica, messa in pratica. Quando, dal 1995 al 2004, sono stato commissario europeo a Bruxelles, ho potuto impegnarmi direttamente per rendere l’integrazione più solida, per estenderla a nuovi Paesi, per farne rispettare le norme da parte dei governi e delle imprese, non solo europee ma anche dei Paesi terzi, a cominciare dalle multinazionali americane. Quando infine, nel novembre 2011, il Presidente Napolitano mi ha chiamato a Roma per formare e guidare un governo di emergenza per fronteggiare la crisi finanziaria che aveva paralizzato governo e Parlamento, ho operato ovviamente nell’interesse dell’Italia. Ma questo esigeva che venisse riconquistata al più presto, prima di tutto in Europa, la fiducia della comunità internazionale e dei mercati, proprio come era di vitale importanza per l’Europa che il nostro Stato non cadesse nel precipizio di un default che probabilmente avrebbe portato alla dissoluzione dell’euro. Sì, in tutte le fasi della mia vita e in ogni funzione ricoperta ho agito nella convinzione che tra i veri interessi nazionali del nostro Paese e l’avanzamento della costruzione europea vi fosse piena coincidenza. Oggi, questa convinzione è in me più forte che mai malgrado il diffondersi delle posizioni sovraniste, anzi proprio a causa di quelle posizioni. Se esse dovessero prevalere, l’Italia si ritroverebbe nei fatti ancor meno “sovrana” di oggi. E molto meno sovrana di quanto lo sarebbe con un’Europa meglio dotata di oggi dei poteri necessari per esercitare nel mondo, con efficacia, una sovranità condivisa a livello continentale».

Poco più di sei anni fa, nel presentare il suo libro «La democrazia in Europa», scritto a quattro mani con Sylvie Goulard, la sua idea di Europa era stata sintetizzata così: un’ Unione costruita male, senza un popolo che si senta tale, ma con un futuro possibile e necessario anche se ancora tutto da inventare. È ancora così?

«Il nostro libro, “La democrazia in Europa”, aveva un sottotitolo: “Guardare lontano”. Sylvie Goulard e io scrivevamo che, a nostro parere, le difficoltà della costruzione europea andavano aumentando in primo luogo per la deriva sempre più visibile nel funzionamento dei sistemi politici nazionali. Dominati sempre più dall’esigenza ossessiva del consenso nel breve, anzi brevissimo periodo – di qui il nostro richiamo a “guardare lontano” – i politici e i governi nazionali hanno gradualmente perso la volontà e la capacità di investire nel progetto europeo, un grande impegno comune di lungo periodo, nell’interesse di tutti. Invece, molti di essi hanno sempre più “usato” le manchevolezze, vere o presunte, dell’Europa, e perfino i benefici provenienti dall’Europa, per cercare di acquisire consenso nel Paese, additando le prime come causa di quel che va male e rivendicando essi il merito dei benefici. Quanto potrà ancora progredire la costruzione europea se coloro che dovrebbero esserne i “costruttori” più importanti – i capi dei governi nazionali, che formano il Consiglio europeo – fanno sempre più uso dell’Europa a fini politici propri (magari si trattasse davvero di “interessi nazionali” …) anziché vederla come cantiere di una solida casa comune per gli europei di domani ? Può l’Europa svilupparsi se gli Helmut Kohl sono sempre più rari e i David Cameron sempre più frequenti ?».

In realtà l’Europa, come voi stessi spiegavate in quel saggio, più che un Paese è un processo di integrazione. Che - da quando è iniziato - ha fatto più passi avanti o più passi indietro? E comunque è un processo che arriverà mai ad una fine? E se sì, è possibile ipotizzare quando?

«Sicuramente ha fatto più passi avanti che indietro! Ha preservato per settant’anni la pace tra Paesi che in passato erano spesso in guerra e che sono stati all’origine di due guerre mondiali in venticinque anni. Ha costruito il mercato unico più grande del mondo. Da molte monete nazionali fragili ha creato una moneta unica forte, la seconda più importante al mondo. Ha contribuito ad unire in un sistema basato sulla legge, non sulla prepotenza, ventotto Paesi, ciascuno dei quali ha voluto fortemente entrarvi».

Passi indietro?

«Molti anche i passi indietro, è innegabile, ma soprattutto i mancati passi avanti. Questi sarebbero stati necessari e anche possibili, se non fosse spesso prevalso l’interesse politico-partitico (presentato spesso con la foglia di fico dell’interesse nazionale) di questo o di quello nel frenare. Cito le gravi lacune in materia di politica fiscale, di politica delle migrazioni, di politica estera e della difesa. Là dove invece gli Stati si sono decisi a dare i poteri al livello comunitario, sotto il controllo del Parlamento europeo, abbiamo storie di grande forza dell’Europa : la moneta, la concorrenza e l’antitrust, il commercio internazionale. Come diciamo nel libro, l’Unione Europea per noi è un “flusso”, un divenire, non uno “stato”. Non ha bisogno di diventare uno “Stato”, gli Stati Uniti d’Europa, per rendere migliore e più sicura la vita degli europei e per difendere e affermare nel mondo i valori della civiltà europea. Certo l’ulteriore integrazione che occorre per realizzare questi obiettivi non si farà senza una “ribellione” dei cittadini. Non si farà finchè noi cittadini europei tollereremo che politici cinici – mentre ci lavano il cervello con secchiate di “sovranità” e “nazione” - trasformino poco alla volta i nostri Paesi in colonie di regimi autoritari extraeuropei, perché ostacolano il formarsi di quell’Europa che, scomoda per i loro interessi in quanto limita gli abusi di chi governa, è vitale nell’interesse nostro di cittadini e dei nostri figli».

Come giudica il contrasto (se esiste) tra establishment ed opinione pubblica e il ruolo della tecnocrazia nel rapporto con la politica?

«L’establishment, inteso come classe dirigente o élite, esiste in ogni Paese, con ogni sistema politico. Il problema si ha quando l’élite si consolida indipendentemente dai meriti ed è difficile, anche per i meritevoli, entrare a farne parte. Fa difetto, allora, la “circolazione delle élite”. La società è allora iniqua, l’economia stagnante. Questo è, per l’Italia, un tema drammatico. Agli infuocati attacchi all’élite si accompagna curiosamente, soprattutto nella sinistra e nei movimenti che si dicono “populisti”, la mancanza di interventi che servirebbero a stimolare la circolazione delle élites : l’insistenza sul merito, la tassazione progressiva (in Italia ora si tende a preferire la flat tax), un’imposizione sulle successioni del livello riscontrabile in altri Paesi (in Italia è più bassa), una modesta ma ricorrente imposta patrimoniale (anatema, in Italia). Finiremo così per avere un’élite sempre più sclerotica e che non si rinnova, un odio sempre maggiore per le élites, una politica che disdegna sempre più le competenze».

E il rapporto tra politica e tecnocrazia?

«A me sembra che la competenza tecnica (“tecno”) possa diventare “tecnocrazia” in due casi: se soggetti diversi dai rappresentanti politici eletti dal popolo “prendono” il potere, ad esempio con un colpo di stato ; oppure se i rappresentanti politici, in una determinata situazione, decidono liberamente di ricorrere a qualcuno che ritengono in grado, per competenza, credibilità, forse anche per la sua estraneità ai partiti politici, di esercitare i poteri di governo meglio di come essi, nelle circostanze, sarebbero in grado di fare. Allora gli conferiscono, con la designazione o con un voto di fiducia, il potere di governare, creando essi una “tecno-crazia”. A mio parere, la prima forma di tecnocrazia va rigettata completamente, in quanto estranea alla democrazia; quanto alla seconda, se vi si ricorre è segno che la politica è in crisi grave. L’ideale, sempre secondo me, è che il processo di selezione dei politici valorizzi anche le competenze, per farne dei politici più consapevoli e più capaci di dialogare con i “tecnici”, che è comunque utile consultare nel processo delle decisioni politiche».

«I nazionalisti lasciati allo stato brado ci porterebbero alle guerre»: l’ha detto lei. È un rischio reale? È vero che, contrariamente a ciò che molti credono, indeboliscono il Paese che li alimenta?

«“Le nationalisme c’est la guerre!” Così François Mitterrand concluse il suo ultimo discorso al Parlamento europeo nel gennaio 1995, il primo discorso che ascoltai come neo-commissario europeo. Aveva ragione. I movimenti nazionalisti dei vari Paesi europei che cos’hanno in comune ? La volontà di ridimensionare, forse azzerare, i poteri di Bruxelles. Al di là di questo obiettivo, se per un momento supponiamo che l’abbiano conseguito, che cosa avrebbero in comune? Nulla, solo la volontà che la nazione di ciascuno prevalga sulle nazioni degli altri, foss’anche con l’uso della forza. No, grazie. Per questi nobili ideali, abbiamo già avuto decine di milioni di morti. Nel frattempo, ogni Paese sarebbe più debole, in mancanza di un’Europa più forte. Più debole verso le eventuali prepotenze di questo o quel Paese europeo. Più debole verso le potenze extraeuropee, politiche, militari o anche soltanto tecnologiche».

Quale contributo ha dato l’Italia prima alla costituzione dell’Europa, con i Trattati del 1957, e poi alla «ricostituzione» dell’Unione?

«L’Italia ha espresso antesignani come Luigi Einaudi, padri fondatori come Alcide De Gasperi, padri rifondatori come Altiero Spinelli. In seguito, in momenti cruciali del percorso europeo, ha saputo dare l’impulso decisivo, come al Consiglio europeo di Milano del 1985, presieduto da Bettino Craxi, essenziale per il Mercato unico; e al Consiglio europeo di Roma del 1990, presieduto da Giulio Andreotti, fondamentale per la Moneta unica. Su L’Eco di Bergamo vorrei anche ricordare Filippo Maria Pandolfi, il ministro del Tesoro che per primo si è battuto per la disciplina di bilancio e che, dal 1989 al 1993, è stato eccellente vicepresidente della Commissione europea e commissario alla Ricerca e all’Industria. Ricordo che fu lui, nell’estate del 1994, a persuadermi ad accettare la designazione a commissario che mi venne proposta dal presidente del Consiglio Berlusconi, designazione che apprezzai grandemente ma che non ero sicuro di saper valorizzare al meglio, a meno che riguardasse l’Economia e la moneta, competenza che però sarebbe stata attribuita ad un francese».

Quanto siamo isolati oggi dal resto d’Europa? Andrà meglio o peggio dopo le elezioni del 26 maggio?

«La risposta è breve e sconfortante: l’Italia è più isolata che mai. Forse è il risultato inevitabile di una leadership politica ignorante in storia, arrogante nelle relazioni internazionali, divisa al suo interno, guidata solo dall’intento di muoversi come perfetta follower degli umori dei social media, che essa stessa istiga contro l’Europa, contro la Francia, contro la Germania. Per fortuna abbiamo il Presidente Mattarella, garanzia della dignità europea dell’Italia. Dopo le elezioni del 26 maggio? Non so rispondere».

Nel suo ultimo saggio, «Le dieci bugie», Alessandro Barbano scrive che «nelle prossime elezioni l’Italia gioca un ruolo ancor più drammaticamente decisivo, perché rischia di trasformarsi, da Paese fondatore, in cavallo di Troia per colpire al cuore le Europa». È davvero così? E se improvvisamente l’Europa si dissolvesse, chi - e perché - pagherebbe il prezzo più alto?

«Romano Prodi e Carlo Azeglio Ciampi nel 1996-1998 riuscirono a portare l’Italia nell’euro fin dal primo giorno. Nel 2011-2012 con l’incoraggiamento di Giorgio Napolitano, con il governo che fui chiamato a guidare e con l’appoggio di una grande coalizione parlamentare, si evitò che l’Italia fosse costretta ad abbandonare l’euro, forse travolgendolo nella sua caduta. Negli anni successivi la sapiente condotta di Mario Draghi alla BCE ha consentito di scongiurare altre turbative all’euro e alla finanza europea. Sarebbe un destino beffardo, per l’Italia tanto impegnata in Europa, trasformarsi da Paese fondatore in Paese affondatore, in un cavallo di Troia, appunto, al servizio – consapevole o meno – degli avversari dell’Europa, dei nemici dei nostri valori. In quel caso, dato che la Storia non fa sconti, sarebbe proprio l’Italia a pagare il prezzo più alto. Pagheremmo il prezzo dell’avere scelto per governarci persone inadeguate e, forse, del non aver osato combatterle anche quando è diventato evidente il loro intento di portare l’Italia fuori dalla sua storia e dalla sua civiltà».

Si stima che in Europa i poveri sfiorino i 100 milioni di persone. Saranno sempre di più o è possibile accogliere i ripetuti inviti di Papa Francesco a combattere concretamente la povertà?

«Ho avuto il privilegio di dialogare con Papa Francesco sull’Europa proprio all’inizio del suo pontificato. Lo pregai vivamente di dare alla costruzione europea – lui uomo di cultura europea ma fino ad allora non cittadino d’Europa – il dono del suo incoraggiamento e della sua critica. Ero presente, con emozione, al suo discorso di Strasburgo al Parlamento europeo. Sul tema della povertà, l’Europa deve seguirlo: non solo perché è un imperativo etico, se non vogliamo perdere i connotati della nostra civiltà e delle nostre religioni. Ma anche per la sopravvivenza stessa dell’integrazione europea. Se in Europa avanza il mercato unico, ma molti cittadini lo vedono come portatore di disuguaglianze crescenti, è il fondamento stesso della nostra Europa che salta. Anche per questo, gli Stati devono accettare un maggiore coordinamento europeo in materia fiscale, premessa per una lotta più efficace all’evasione».

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