L’Agnello d’oro e i lupi della cucina
Favola che dura da mezzo secolo

Il lupo e l’agnello sono i personaggi di una famosa favola di Fedro - scrittore latino vissuto a cavallo della nascita di Cristo - metafora di una legge antica quanto il mondo: dopo aver cercato invano un pretesto plausibile per farlo, il lupo sbrana l’agnello semplicemente perché lui è il più forte.

Insomma, non esattamente quello che si intende per lieto fine.Ma se i lupi diventano due e l’agnello è d’oro, lo scenario cambia completamente. E se non si può parlare di lieto fine è semplicemente perché quel fine è ancora ben lontano dall’essere scritto. Nonostante dal fatidico «C’era una volta» sia ormai trascorso mezzo secolo.

Era infatti il 1964 quando Pino Capozzi, barese di Gioia del Colle, genio della cucina e dell’imprenditoria, prese in gestione l’Agnello d’oro - ristorante albergo in piazzetta San Pancrazio, lungo la Corsarola, che già esisteva dal 1600 - per portarlo a diventare, in pochi anni, un tempio della cucina bergamasca, conosciuto e apprezzato in Italia e fuori. Fin qui l’agnello, dunque. Ma i due lupi? Quelli arrivarono nove anni dopo, nel 1973. Uno era un Lupo con «L» maiuscola: Alberto di nome, attore di professione, molto popolare in quel periodo. L’altro era sempre lui, Pino Capozzi, al quale capitava spesso di sentirsi dire «ma lo sa che lei è proprio il sosia di Alberto Lupo?». Una squadra perfetta per l’«Alfiere della gastronomia», gara culinaria di grandissimo successo sulla Riviera del Conero tra coppie formate da uno chef e un personaggio famoso dello spettacolo . Il Lupo vero e il suo sosia parteciparono con un piatto, il «vitello ai due lupi», che vinse il primo premio.

Erano gli anni d’oro dell’Agnello - tra l’altro il primo albergo di Bergamo ad avere tutte le camere con bagno - a coronamento di un cammino cominciato nel 1947, quando Capozzi era giunto a Bergamo come radiotelegrafista dell’Aviazione. Qui aveva conosciuto Elena Guindani, sposata nel 1949, dalla quale aveva avuto due figli: Pier Carlo (1951) e Massimo (1957). Nel frattempo (1952) aveva smesso la divisa e deciso di volare alto nel settore della ristorazione.

Ma il decollo non fu fortunato, tanto che Capozzi si ritrovò a girare con un furgone Romeo di seconda mano vendendo pesce in inverno e gelato in estate. Fino a quel fatidico 1964, quando l’Agnello d’oro fu tra gli ultimi edifici ristrutturati nell’ambito del grande progetto di riqualificazione di Città Alta curato dall’ingegnere Luigi Angelini. Pino fiutò l’occasione e si fiondò all’appuntamento con Remo Locatelli - esponente della prestigiosa famiglia milanese tuttora proprietaria dell’immobile - con il vestito buono della festa e con una Fiat 1300 di cui aveva pagato solo la prima rata.

Ottenne i locali in affitto e avviò l’attività, ma i soldi per portarla avanti scarseggiavano. Finché un giorno si presentò all’Agnello d’oro Luigi Rizzi, commerciante di prodotti petroliferi di Gorle, che vedendo Pino sulla porta gli chiese se avesse bisogno della sua nafta. «Bisogno ce l’avrei - fu la risposta -, ma in questo momento non la posso pagare». E Rizzi: «Non si preoccupi: io le faccio la fornitura, quando avrà i soldi me li darà». Fu la spinta che serviva per completare il decollo dell’aviatore Capozzi e del suo sogno.

Una storia di famiglia. All’inizio con Pino c’erano la moglie Elena (bravissima in cucina: fu lei a insegnare al marito) e il giovane Pier Carlo, che nel 1972 venne «dirottato» sulla gestione del nuovo hotel Città dei Mille, appena costruito. Con lui doveva esserci proprio mamma Elena, ma il destino la portò via alla fine del 1971, uccisa da un terribile male. Poi, quando ne ebbe l’età, entrò in campo il secondogenito Massimo. E oggi è lui a gestire l’Agnello d’oro dopo la scomparsa, nel 2012, di Pino. Che nel 2009 aveva sposato in seconde nozze Stella Silipo, tuttora attiva nel dare il suo contributo. Ma negli anni è stato fondamentale anche l’aiuto della famiglia d’origine di Pino: il papà Pietro, al quale tutta Città Alta voleva un gran bene; la mamma Antonietta capace, con il suo barese stretto, di interloquire (capendosi) con clienti provenienti da ogni angolo del mondo; la sorella Anna e suo marito Nino, l’«uomo delle scartoffie» indigeste a tutte le generazioni della famiglia Capozzi.

I piatti che hanno fatto grande l’Agnello d’oro sono quelli della tradizione bergamasca, casoncelli e polenta con gli abbinamenti più classici: uccelli, quaglie, salsiccia... Capozzi arrivò a fregiarsi del titolo di «Re della polenta e uccelli» vincendo le ultime due edizioni dell’«Invito a tavola», rassegna organizzata dall’Azienda di turismo. Poi nacque l’amicizia con Luigi Veronelli, di cui fu ospite in Rai alla trasmissione «Colazione alle 7». Stelle dello spettacolo divennero clienti, assidui frequentatori, amici. Come Ave Ninchi, con la quale Capozzi bissò nel 1974 il titolo di «Alfiere della gastronomia» e nel 1976 scrisse un libro sul riso. Come Marcello Mastroianni, Paolo Villaggio, Enrico Montesano, Edwige Fenech, Valeria Valeri, Monica Guerritore. Come Loretta Goggi, che amava fare colazione a uno dei tavoli in piazzetta normalmente riservati solo al ristorante. Come Renzo Palmer, noto in quegli anni per aver interpretato Cavour. E quando se lo vide entrare nel locale, Pino Capozzi esclamò: «Cavour, ma che Italia mi ha fatto?».

Come Alain Delon, che nel 1968 girò in Città Alta, sotto la direzione di Louis Malle, un episodio del film «Tre passi nel delirio». Come Ugo Pagliai, che vi soggiornò nel 1970 durante le riprese dello sceneggiato «Le cinque giornate di Milano», nel quale l’Agnello d’oro divenne addirittura protagonista «interpretando» il caffè La Bella Venezia, dove si incontravano Carlo Cattaneo e gli altri patrioti.

Ma in questi cinquant’anni la sua cucina e le sue 25 camere hanno stregato anche cantanti come Lucio Dalla, Francesco De Gregori, Fiorella Mannoia e Noa. Giornalisti e scrittori come Indro Montanelli e Carlo Castellaneta. Architetti e designer come Philippe Stark. Ballerini come Carla Fracci e Don Lurio. Campioni dello sport come il ciclista Franco Bitossi, che qui alloggiò in maglia rosa durante il Giro d’Italia del 1971. Astronauti come Franco Malerba. E naturalmente, grandi bergamaschi come Ermanno Olmi, Giulio Bosetti o Gianandrea Gavazzeni. Accanto ai quali non è però mai mancata la Bergamo della gente, di chi passava semplicemente per un bicchiere, un caffè e quattro chiacchiere. La Bergamo del fabbro poeta Pietro Scuri, di don Vitale Pellegrini, storico cappellano delle carceri, di don Tarcisio Ferrari, all’epoca segretario del vescovo Gaddi. Perché il glocal è moda recente, ma questo è sempre stato l’Agnello d’oro: un’eccellenza di livello internazionale, profondamente radicata nel tessuto sociale del cuore più vero di Bergamo.

Piero Vailati

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