Latino e greco?
In Olanda sono utilissimi

Docente, filologo e storico delle religioni, il quarantenne Pierluigi Lanfranchi è originario di Sovere. Il suo prestigioso percorso accademico, cominciato con un dottorato a Leiden (Olanda) nel 2005, lo ha portato a condurre ricerche e insegnare (imparandone le lingue) in Olanda, Canada, Belgio, Spagna e Usa.

Da qualche anno, è professore associato di Lingua e letteratura greca all’università francese di Aix-Marseille in Francia, e prosegue le sue ricerche ad Amsterdam, dove risiede con la famiglia. Oltre a essere un ottimo poeta, traduce in italiano poeti olandesi e fiamminghi con il prezioso contributo della compagna Emilie.

Partiamo dal principio: come si è sviluppata la sua passione per il mondo classico?

«È nata alle scuole medie quando la nostra insegnante di lettere ci leggeva passi di “Iliade”, “Odissea” ed “Eneide”. Si è poi sviluppata al liceo classico “Celeri” di Lovere, dove ho imparato a leggere quei testi in lingua originale. L’estate del diploma, zaino in spalla, ho fatto un viaggio in Grecia con un’amica. Al rientro, con gli occhi ancora pieni di colonne doriche, statue, marmi e della luce del paesaggio greco, mi sono iscritto a Lettere classiche all’Università Statale di Milano. Una volta laureato, volevo proseguire i miei studi: ho iniziato il dottorato in Storia delle religioni alla Sorbona di Parigi. Lì ho conosciuto la mia compagna Emilie. Quando lei è rientrata in Olanda, l’ho seguita e ho terminato il dottorato a Leiden».

Quali sono state le esperienze più arricchenti?

«Parigi e Amsterdam offrono molte possibilità per ampliare la propria cultura. Ho letto moltissimo in biblioteche ricche e ben organizzate, imparando a esprimermi in altre lingue. Per un anno intero, ogni domenica pomeriggio, sono andato al Louvre. Avevo il progetto folle di visitarlo tutto, sala per sala. Alla fine ho rinunciato a questo sogno di completezza. L’Olanda, invece, ha significato per me un’apertura verso l’Europa del Nord e la cultura anglosassone, verso cui gli olandesi guardano. Sono stato anche per un breve periodo a Washington, dove ho accompagnato Emilie che aveva una borsa di studio della Harvard University. Il centro di ricerca di Dumbarton Oaks si trova in una villa vittoriana immersa in un magnifico parco a Georgetown. Chiusi lì dentro, è facile dimenticarsi della realtà esterna e del fatto che a pochi chilometri si estendono i ghetti neri tra i più poveri d’America».

Quali obiettivi dovrebbe perseguire un «buon insegnante»?

«Insegnare significa trasmettere alle nuove generazioni una civiltà – nel mio caso la civiltà classica e quindi europea – non come se fosse un cadavere da sezionare, ma una cosa viva. Sempre più spesso politici e amministratori dell’università vorrebbero che l’insegnante si limitasse a fornire agli studenti una serie di competenze immediatamente spendibili nel mondo professionale. Il buon insegnante deve invece trasmettere conoscenza. Non è semplicemente una somma di informazioni che gli studenti ricevono; la conoscenza, per come la concepisco io, è un processo che ci permette di capire qualcosa del mondo. Aristotele diceva che all’origine di ogni conoscenza c’è una passione: la capacità di meravigliarsi propria dell’essere umano. Il buon insegnante dovrebbe, con il suo esempio, insegnare a meravigliarsi».

Cosa ne possiamo fare oggi delle lingue antiche e delle discipline che insegna?

«L’importanza dello studio del greco e del latino sta paradossalmente nella sua inutilità e nella sua inattualità. Non se ne può fare un uso pratico. Non si può vendere, né monetizzare. Chi le studia può avere sul presente uno sguardo più profondo, non appiattito sulla situazione contingente, sull’attualità in cui le informazioni corrono a velocità vertiginosa. La filologia – lo studio critico di un testo – , non è solo un sapere tecnico, ma un modo di pensare criticamente, capace di smascherare i discorsi su cui si fonda e si mantiene il potere. In questo senso la sua inattualità può diventare estremamente attuale. Da qualche anno mi occupo dei conflitti tra cristiani ed ebrei nella tarda antichità: capire i meccanismi della polemica religiosa nel mondo antico è utile per analizzare quelli di altre epoche, compresa la nostra».

Ha avuto occasione di collaborare con numerose università europee: quali sono gli aspetti critici e i punti di forza di queste realtà accademiche?

«La situazione dell’università e di tutto il sistema educativo francese è catastrofica. I miei studenti francesi hanno una cultura di base molto limitata e, tranne rare eccezioni, non sono in grado di articolare i loro pensieri per iscritto. Oltre al citato sistema scolastico che privilegia le competenze a discapito della conoscenza, una delle ragioni di tale situazione può essere attribuita al “doppio sistema”: nelle Grandes Ecoles viene formata l’élite, mentre nelle università si riversa la massa uscita mal preparata dai licei. Per realizzare progetti di ricerca è sempre più necessario trovare finanziamenti esterni. Il sistema europeo dei finanziamenti alla ricerca è perverso: le università olandesi pagano degli esperti per insegnare ai ricercatori come scrivere progetti alla moda impegnando in questo le risorse. Sono molto deluso dalla piega che ha preso la ricerca negli ultimi anni: la valutazione della produttività dei ricercatori si basa solo su criteri quantitativi. L’università è diventata una specie di fabbrica omologante gestita con criteri aziendali».

Un rifugio potrebbe essere la poesia. Nelle sue raccolte, da quali prospettive esplora le «stanze del mondo»?

«Non concepisco la poesia come un rifugio o una forma di evasione. Credo che la poesia con i suoi ritmi, i suoi accenti, le sue misure, cerchi di esprimere il mondo in una forma. Ma il mondo deborda, è sempre in movimento. Il mondo che cerco di esplorare nei miei versi è quello in cui vivo: la poesia è un modo per dare un senso all’esperienza e, a volte, per opporsi al mondo. In Italia la poesia contemporanea è un genere letterario che non ha mercato. Questa marginalità, se per molti è frustrante, dall’altra parte costituisce un punto di forza: permette ai poeti di non essere assoggettati alle regole del mercato, alla macchina della promozione».

Passando alla quotidianità, come si trova ad Amsterdam?

«Ci vivo con la mia compagna e mio figlio. La nostra casa si trova nel quartiere Oud-West, non lontano dalla zona dei musei. Nel tempo libero mi piace passeggiare per la città, soprattutto in periferia, lungo depositi di tram, vecchi cimiteri, capannoni e rimesse, canali dove guardo passare le chiatte, sguazzare le folaghe, le oche e le anatre».

Cosa le manca dell’Italia?

«Dell’Italia mi manca la lingua parlata, sentire le conversazioni della gente al bar e il non potermi esprimere in italiano quando insegno o quando parlo con gli amici. Torno spesso a Sovere, tre o quattro volte l’anno e ci passo gran parte delle mie vacanze estive. Se penso al fenomeno migratorio, mi considero un privilegiato: gli zii di mia madre sono andati in Svizzera negli anni ’30 perché erano poveri. Non avevano nemmeno le scarpe. Per questo sono spinto a sentire solidarietà nei confronti di coloro che affrontano oggi le traversate del Mediterraneo e cercano un’altra vita in Europa. Non mi considero un emigrante. Mi sento un cittadino europeo che vive e lavora lontano dal posto in cui è nato».

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