Morta dopo 13 anni di coma
«Mi ha fatto diventare migliore»

Fa uno strano effetto suonare il campanello dell'appartamento, perché appiccicato sopra ci sta anche il nome di una persona che lì negli ultimi 13 anni non c'è stata e che si sapeva non sarebbe mai tornata: «Cereda-Giua».

Fa uno strano effetto suonare il campanello dell'appartamento, perché appiccicato sopra ci sta anche il nome di una persona che lì negli ultimi 13 anni non c'è stata e che si sapeva non sarebbe mai tornata. «Cereda-Giua». Lei da ieri è nella morgue del cimitero in attesa di autopsia e funerali; lui ci attende in cucina.

Signor Cereda, che cosa sono stati questi 13 anni: speranza, rassegnazione, rabbia?
«Gli stati d'animo sono stati condizionati. Cerchi di far finta di niente, ma non puoi nasconderti la realtà. Il dovere ha sempre il sopravvento: devi accudire tua moglie, tenerle compagnia, seguirla. Questi anni sono stati un gran sacrificio, fisico e mentale: ti logorano in modo che non puoi immaginare. Però l'ho fatto con gran volontà e sincerità».

Quante volte andava a trovare sua moglie?
«All'inizio tutti i giorni, poi 2-3 volte la settimana».

E che cosa faceva?
«Niente, le raccontavo cosa facevo, come cresceva nostro figlio. Le cose che si dicono in famiglia. Poi, quando c'era bel tempo, in carrozzina la portavo a fare una passeggiata».

Non si sentiva un po' strano? Lei le parlava, ma non è sicuro che Antonella capisse.
«A volte le difficoltà arrivano perché pensi di essere quello di prima. Devi invece cambiare il tuo punto di vista».

E oggi lei che uomo è?
«Una persona diversa, questa sofferenza mi ha fatto capire cose diverse. Senz'altro sono un uomo migliore».

Com'è stato il primo periodo, con un figlio di pochi giorni da accudire e una moglie in stato vegetativo?
«All'inizio ho lasciato il lavoro. Mi ero imposto di dover crescere mio figlio da solo e di stare al capezzale di Antonella. "Quando finirò i soldi, qualcuno pagherà perché in questa situazione mi ci hanno messo loro", pensavo. Invece, non è stato così. Mi sono dovuto rimettere a lavorare. E fortuna che la mia ex moglie s'è fatta carico di Antonio».

Ermanno, sua moglie è finita in stato vegetativo per una spina staccata: se ci si pensa, c'è da impazzire.
«All'inizio non volevo credere che mia moglie era in una situazione irrimediabile, che l'attività cerebrale era quello che era».

Poi?

«Poi ho finito per prenderne atto».

Ha notato cambiamenti in Antonella.
«Sì, da due anni a questa parte nei suoi occhi ho percepito una richiesta di aiuto. Come se mi dicesse: fai qualcosa, non ce la faccio più. Ultimamente era molto stanca, aveva crisi più frequenti».

E lei, Ermanno, che pensava?
«Che se c'era da darle la morfina per non farla soffrire, bene. Ma se dovevamo fare i salti mortali per tenerla qui così, in queste condizioni, non c'era più uno scopo».

La morte di sua moglie è stata anche una liberazione, allora?
«No, è stata soprattutto dolore. Era sempre mia moglie, con cui ho vissuto tante esperienze, nel bene e nel male. E adesso che non c'è più, mi rendo conto che mi mancheranno anche i medici e gli infermieri. Spero di colmare il vuoto con qualcosa di importante. Diciamo che è stato un mix di dolore e felicità. Dolore per me che la stavo perdendo; felicità per lei che smetteva di soffrire. Piangevo e allo stesso tempo ero felice».

Suo figlio come l'ha presa?
«Apparentemente in modo normale. È sempre stato un po' neutro su questa cosa. Ma quando lunedì l'ho visto piangere, mi è dispiaciuto. Però è un ragazzo, forte, come la sua mamma».

Ora potrebbe riaprirsi l'inchiesta.
«Bene. Perché io la verità al 100% non l'ho mai saputa. E per questo sono ancora arrabbiato».

Stefano Serpellini

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