Morto di tumore da detenuto
Il male più veloce della burocrazia

«Avrei voluto almeno permettergli di morire da uomo libero. E invece ho scoperto solo per un caso fortuito e in modo del tutto informale che il mio assistito si trovava già in Rianimazione. Quando è arrivato il parere positivo, dopo molte insistenze, del procuratore generale, la Corte non ha fatto in tempo a riunirsi per decidere: il mio assistito non ce l’ha fatta. Ho chiesto chiarimenti, segnalato perché potevo anche essere avvertita, per evitare casi analoghi». Sono parole che vibrano di tensione e commozione quelle che l’avvocato Francesca Brocchi del foro di Milano usa per raccontare la triste vicenda di Giorgio Caccia, suo assistito di 58 anni, originario di Gandino e da diversi anni gravitante nella zona del milanese, morto il 29 luglio all’ospedale San Paolo di Milano per un tumore. Piccoli precedenti alle spalle, con anche un periodo di carcerazione, Caccia aveva cercato di rimettersi in pista, senza però riuscire proprio a causa del suo passato di detenuto; alla fine il 23 aprile 2018, mosso dalla disperazione, aveva rapinato un ufficio postale. Una vicenda che gli era costata l’arresto e la carcerazione, con condanna in primo grado a cinque anni e otto mesi di reclusione.

A novembre i primi problemi di salute: una tosse insistente cui però nessuno aveva dato troppo peso. Nel frattempo l’iter giudiziario arriva in sede di appello. Alcuni controlli al Fatebenefratelli riscontrano liquido nei polmoni, vengono fatte due toracocentesi nel corso di alcune settimane di ricovero, ma solo ad aprile 2019: poi Caccia torna in carcere. Gli esiti parlano di cellule tumorali maligne, la situazione clinica peggiora rapidamente. Il 12 giugno viene ricoverato al San Paolo, per tornare di nuovo a Opera il 15 luglio: ci sono metastasi anche nelle ossa. «Non sono stata informata di nulla – racconta il difensore – ho scoperto in modo casuale che non era più in carcere: avevo fissato un colloquio con lui il 24 luglio, ma quando mi sono presentata mi hanno detto che non c’era. Ho poi scoperto che era in ospedale da un paio di giorni, in rianimazione».

Del trasferimento nessuna notizia le era stata data, nemmeno oralmente. «Avevo fatto richiesta di scarcerazione l’8 maggio: erano stati chiesti altri documenti, quindi tutto si era fermato in attesa di una diagnosi definitiva – spiega ancora l’avvocato –. Una seconda richiesta l’ho fatta il 12 giugno. Il 25 luglio, scoperto che era in Rianimazione, ho scritto una lettera. Il procuratore generale ha dato il parere favorevole alla sostituzione della custodia in carcere con l’obbligo di presentazione la mattina del 29 luglio: purtroppo la Corte non ha fatto nemmeno in tempo a riunirsi, Giorgio Caccia è morto quel giorno stesso».

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