«Quei profughi della Camozzi
l’orto, il lavoro e la voglia di sperare»

La testimonianza di Valentina, che durante l’anno segue l’orto della scuola media che attualmente ospita 15 profughi.

Sono Valentina, una delle due operatrici che durante l’anno scolastico seguono il progetto dell’orto presso la scuola media Camozzi. Giovedì sono passata da scuola perché necessitavo di una rete che avevo dimenticato all’orto. Mi aspettavo che, come ogni estate, l’orto fosse secco, incolto, con erbacce alte come me: è normale, i bambini sono in vacanza, la scuola è aperta solo al mattino, e se non c’è l’adorabile e super-efficiente bidella Nicoletta, che nei ritagli di tempo dà una bagnata, l’orto vive un momento di totale abbandono.

Sapevo che alcuni profughi erano ospiti della struttura, anche perché ero stata informata della visita che una quindicina di ragazzi dell’oratorio di Monterosso avevano fatto settimana scorsa, organizzando una partita di pallone: il calcio parla davvero una lingua universale! Ho chiesto in francese a un paio di ragazzi di colore in prossimità del cancello di poter parlare con qualcuno della cooperativa Ruah, che li ha in cura, per farmi aprire. Così, oltre al cancello, mi si è aperto un mondo.

La prima bella sorpresa è stata di vedere che alcuni ragazzi stavano tenendo bagnato l’orto. Nessuno lo aveva proposto loro, me lo ha confermato l’operatrice della cooperativa, è stata un’iniziativa spontanea. Per alcuni in Africa la cura della terra fa parte della normalità. Così per questi profughi forse è stato un po’ come sentire l’aria di casa. Anche Ferruccio, come me del gruppo «Orti nel Parco», gli orti sociali del Parco dei Colli , mi raccontava che in un orto sociale di Zingonia, alcune famiglie del Burkina Faso cui era stata assegnata una porzione di orto, per la prima volta avevano vissuto la vera integrazione, semplicemente bagnando il terreno spalla a spalla con gli altri ortolani italiani, scambiandosi consigli e pareri con loro. E il motivo vero e profondo di questa integrazione è che nell’orto loro si sentono a casa. È questo il solito desiderio di chi è costretto a emigrare per poter sopravvivere. Sentirsi a casa.

Ieri, in questa mia visita fugace a scuola, ho avuto modo di parlare con qualcuno di questi ragazzi: un paio di loro erano proprio seduti all’ombra del nostro ricovero attrezzi. Uno stava leggendo un giornaletto che avevamo lasciato a scuola per incartare gli ortaggi, una vecchia pubblicità. L’altro era silenzioso, occhi bassi, tristi, di una profondità e disperazione che non ne vedi il fondo e che ti fa mancare l’aria. Lui non ha mai aperto bocca. E non solo perché il suo inglese nigeriano non era fluente. All’altro, quello che leggeva, ho chiesto cosa desiderasse dal suo futuro. Mi ha risposto: «Una famiglia, un figlio da abbracciare la sera quando torno dal lavoro. Qualcosa di molto semplice» mi ha detto con un lieve sorriso. Me ne sono andata augurandogli di realizzare questo suo sogno.

Poi, ho parlato con Silvia, la giovane operatrice della cooperativa, che mi ha commossa spiegandomi che dei primi giorni gli immigrati hanno continuato a dormire per molte ore: avevano da smaltire il lungo e rischioso viaggio, ma soprattutto i mesi di stress e paura. Ora sono più distesi e hanno recuperato le energie. Hanno voglia di continuare a vivere. Non sanno bene per quanti giorni potranno restare qui. Mi ha informata che, dopo la partita di pallone della scorsa settimana con i ragazzi di Monterosso, che gli ha regalato un po’ di gioia, venerdì 31 restituiranno la visita andando a giocare la «partita di ritorno» al campo a sette dell’oratorio. Nel terzo tempo, i nostri giovani bergamaschi hanno deciso di far loro assaggiare la nostra pizza al metro: sarà senz’altro una serata memorabile per tutti!

Uscendo da scuola sono stata fermata da una coppia di nigeriani, simpatici ed estroversi. Avevano voglia di parlare un po’. Chiamandomi «mama», mi hanno raccontato di aver dovuto scappare dal loro Paese a causa della guerra e di aver vissuto alcuni anni in Libia, ma che ora anche lì la situazione è diventata invivibile. Desiderano fortemente un lavoro: è il loro pensiero fisso. Nello spiegarmi i mestieri che hanno fatto e le loro capacità, mi avranno ripetuto 100 volte, come un mantra, la parola «work». Lavoro. Ci sperano davvero. Chissà.

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