Alle urne per regolare
i conti con Renzi

I nostri padri costituenti hanno voluto il referendum come correttivo alla democrazia delegata. Tale istituto, cui è stato conferita – si badi bene – solo una funzione abrogativa, non è stato pensato per riconoscere ai cittadini un potere legislativo in concorrenza con quello del Parlamento, ma unicamente per riservare loro la possibilità di cancellare norme non condivise. Del resto, con un sì e un no a disposizione, gli elettori non sono in grado di entrare nel merito di una legge. L’uso del referendum si presta perciò a sciogliere (preferibilmente) quesiti semplici.

Non permette di entrare nel merito di una legge, tanto meno di guidare la mano del legislatore. Se in alcuni casi, come quelli del divorzio e dell’aborto, la questione era netta, nell’ormai lunga storia delle consultazioni referendarie non è stato sempre così. Non sono mancati nodi molto intricati da sciogliere, come quelli relativi alla materia elettorale. Bisogna, comunque, tener presente che dando voce agli elettori è inevitabile che ne seguano anche indicazioni politiche più generali. Non si è mai verificata, tuttavia, una così alta politicizzazione come nel presente.

Il primo responsabile è stato Renzi. Nel momento della sua massima popolarità, ha pensato di approfittare dell’onda a lui favorevole per cercare di travolgere, in un colpo solo, opposizioni esterne e avversari interni. Ma non aveva fatto i conti con l’aleatorietà del favore popolare. Girato il vento per il sopravvenire di eventi sfavorevoli (Brexit, allarme attentati terroristici, frenata della già debole ripresa economica), il segretario dem si è prontamente smarcato invitando a giudicare la riforma, non per le sue ricadute politiche, ma esclusivamente nel merito.

È servito a poco. Sono stati i suoi antagonisti, dimentichi di aver accusato il premier di aver personalizzato la consultazione, ad impugnare l’arma del referendum. C’è chi (come Salvini o Brunetta) addirittura si vanta di servirsi del voto per liberare Palazzo Chigi dall’aspirante autocrate.

C’è chi al contrario (come Cuperlo o Gotor della minoranza interna) si sdegna di essere sospettato di voler gambizzare il proprio leader. Ma poi tradisce i suoi calcoli politici nel momento stesso in cui subordina l’appoggio alla riforma costituzionale alla correzione della legge elettorale.

Non considera che, se è cattivo, un assetto istituzionale non diventa buono solo perché cambia il meccanismo di voto. A questa contraddizione ne segue una seconda. Con quale faccia si può invitare gli elettori a bocciare nelle urne una riforma quando la si è approvata in Parlamento?

Il testo uscito dalle aule parlamentari è certamente figlio di un compromesso e, come tale, non è certamente un modello impeccabile di Costituzione. La riforma si espone in effetti a severe critiche. Ad esempio, non pare felice la scelta effettuata di mandare in Senato proprio quel ceto politico regionale che non ha dato (per usare un eufemismo) gran prova di sé in questi anni. Rimane, comunque, inevasa la domanda: perché, coerentemente con le riserve avanzate sul nuovo meccanismo istituzionale, non si avanzano proposte alternative?

Se non è con Renzi che si vogliono regolare i conti, perché non tornare sulla riforma dopo aver averla realizzata, visto che una sua bocciatura riporterebbe il macchinoso iter correttivo della Costituzione alla casella di partenza, destino irrevocabile di ogni tentativo precedente?

© RIPRODUZIONE RISERVATA