Amnistia, la parola
del Papa censurata

Antonio Monella trascorrerà il Natale a casa con i suoi familiari. È una bella notizia, comunque la si pensi sulla vicenda di cronaca nera e giudiziaria che ha coinvolto l’imprenditore di Arzago, in carcere da 14 mesi dopo la condanna in via definitiva a 6 anni, due mesi e venti giorni per aver ucciso un ladro intento a rubargli il suv davanti a casa. Condanna ridotta perché Monella ha beneficiato della grazia parziale concessagli dal presidente della Repubblica.

Nei giorni scorsi la mamma di Chiara Poggi, uccisa a Garlasco nel 2007, ha commentato con parole misurate e umane la controversa condanna definitiva in Cassazione a 16 anni di Alberto Stasi: «Forse questo sarà un Natale diverso, dopo la sentenza proviamo sollievo, anche se non si può gioire per una condanna: questa è una tragedia che ha sconvolto due famiglie, per me Alberto era quasi come un figlio».

In un Paese che avesse ancora il senso del tragico, non si dovrebbe appunto gioire per una condanna. Ma in Italia lo spirito pubblico va in altra direzione. In anni recenti abbiamo visto il cappio esibito in Parlamento, scene di festeggiamenti per la notizia di un avviso di garanzia (che non dovrebbe essere sinonimo di condanna preventiva, trattandosi di un atto a tutela dell’indagato) recapitato ad avversari politici, richieste di castrazione chimica per chi è accusato di violenze su donne o minori, fino a chi invoca la pena di morte in tv per gli autori di furti.

In questo clima, i grandi media che orientano l’opinione pubblica hanno censurato la voce di Papa Francesco sul tema del carcere, sollevato nel messaggio per la Giornata mondiale per la pace che ricorre il prossimo 1° gennaio: «Per quanto concerne i detenuti - ha scritto Bergoglio - in molti casi appare urgente adottare misure concrete per migliorare le loro condizioni di vita nelle carceri, accordando un’attenzione speciale a coloro che sono privati della libertà in attesa di giudizio, avendo a mente la finalità rieducativa della sanzione penale e valutando la possibilità di inserire nelle legislazioni nazionali pene alternative alla detenzione carceraria. In questo contesto, desidero rinnovare l’appello alle autorità statali per l’abolizione della pena di morte, là dove essa è ancora in vigore, e a considerare la possibilità di un’amnistia».

Ci sono parole che passano sulla scena pubblica come l’acqua sul vetro, grazie a un manto impermeabile che non le assorbe e le rigetta. Parole scandalose e dirompenti rispetto alle nostre false certezze. Fra queste c’è «amnistia», peraltro termine laico. Come laico è il richiamo del Papa «alla finalità rieducativa della sanzione penale», indicata anche nella nostra Costituzione (articolo 27). La solita obiezione che riduce questi giudizi nella categoria abusata e mendace del «buonismo cattolico», non fa però i conti con la realtà. Perché la realtà e i numeri dicono che il sistema carcerario in Italia è criminogeno, nonostante venga invocato come soluzione di tanti mali.

È ad esempio consolidato e consegnato agli archivi il giudizio secondo il quale l’indulto approvato nel luglio 2006, preceduto tre anni prima dal cosiddetto «indultino» dopo l’appello di Papa Giovanni Paolo II nel 2002, abbia provocato una crescita della criminalità. Nella realtà la recidiva (il ritorno a commettere reati) per chi beneficiò dell’atto di clemenza, fu nei cinque anni seguenti del 33,92%, poco più della metà rispetto a chi sconta la pena interamente in carcere. I penitenziari infatti non sono messi nelle condizioni di garantire la finalità rieducativa. Dei 125 euro che lo Stato (cioè noi) spende al giorno per ogni detenuto in cella , solo il 5,46% è destinato ai servizi cosiddetti «trattamentali», cioè di recupero della persona. Come ad esempio il lavoro: eppure per chi ha svolto un’attività in cella, la recidiva precipita al 2%.

Sarebbero molti i dati di realtà sui quali avviare un dibattito serio riguardo al nostro sistema carcerario. La cui disumanità è certificata non solo dal numero dei suicidi tra i detenuti, ma anche fra gli agenti di polizia penitenziaria (oltre cento negli ultimi dieci anni). Un dibattito che non dovrebbe più rappresentare un tabù culturale. Oggi i detenuti veramente pericolosi, incarcerati per omicidi, reati associativi, traffico internazionale di stupefacenti, sono solo il 10% del totale. Conseguenza del fatto che in Italia l’82,6% dei condannati sconta la pena in cella, contro il 24% di Francia e Germania, dove le pene alternative alla sola detenzione dietro le sbarre sono invece diffuse.

Il governo in carica si è mosso per migliorare le condizioni dei penitenziari, riducendo il sovraffollamento. Ma nemmeno nell’Anno santo della misericordia l’amnistia è a tema (troppo impopolare, si rischia di pagarne il prezzo alle elezioni) se non di uno sparuto numero di parlamentari e delle solite battaglie dei Radicali. Eppure, come dicono i dati di realtà, il bene fa bene. Ma guai a dirlo, anche a Natale.

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