Applausi al governo
e ruoli confusi

Compostezza e senso della misura dovrebbero accompagnare ferite strazianti come quella di Genova. Il presidente Mattarella, ai funerali di Stato per 19 delle 43 vittime, ha infatti parlato di «tragedia inaccettabile», dando profondità al dolore collettivo, e, auspicando «un accertamento rigoroso delle responsabilità», ha indicato la rotta istituzionale. Gli applausi prolungati ai ministri Di Maio, Salvini e Toninelli e i fischi ad alcuni parlamentari del Pd esprimono una netta discontinuità fra ieri e oggi e, se non sbagliamo, anche una condivisione della linea assertiva del governo, in particolare per la revoca della concessione alla società Autostrade per l’Italia.

La sciagura, tuttavia, dovrebbe essere un’occasione non per conquistare consensi, ma per riunire la comunità italiana e mettere in campo il meglio che il Paese è in grado di offrire: trasformare un cumulo di errori in un fattore di crescita civica. Facendo memoria storica, ciò non è quasi mai avvenuto e anche per questo il «governo del cambiamento», caricato di attese collettive, è chiamato ad una prova di maturità: in termini di equilibrio e di competenza.

L’esecutivo Conte non ha alcuna responsabilità su un passato accusato di scarsa trasparenza, perché è lì che bisogna scavare, ma l’ha sul presente e sul futuro. Nonostante il plauso ricevuto ai funerali di ieri dai rappresentanti del governo, qualche rilievo critico e qualche nota stonata ci sono. Una lesione di questa portata non è liquidabile con polemiche frontali o con risposte facili a problemi complessi e la necessità di soluzioni solerti non significa misure spicce. La prima impressione è che il dramma genovese stia ancora dentro l’infinita campagna elettorale e la competizione interna: i Cinquestelle intenti a oscurare la loro vicinanza al movimento No Gronda e Salvini impegnato a prendersela con i vincoli europei sulle infrastrutture. Là dove, viceversa, la strage è una brutta storia italianissima, «sovrana» si potrebbe dire, e semmai è stata proprio la Commissione di Bruxelles a contestare il sistema delle concessioni autostradali con ricorsi alla Corte di giustizia europea.

Non c’è nulla di inatteso nel fatto che il «governo del popolo» cavalchi la legittima indignazione popolare o che scarichi sul sistema della casta elitaria tutte le responsabilità per sottolineare la propria diversità virtuosa, ora che pure il «governo del cambiamento» è nella stanza dei bottoni. Suona male, perché pare mettere in dubbio i valori costituzionali, una caduta di stile nella migliore delle ipotesi, l’affermazione del premier Conte che il suo governo non può aspettare i tempi della giustizia. In realtà sono i tempi dello Stato di diritto. Come se la maggioranza parlamentare diventasse la magistratura inquirente e come se la rivendicazione del primato della politica sull’economia consentisse giudizi sommari, l’emissione di condanne e l’inseguimento di complotti. Senza un minimo di istruttoria e con la tendenza all’inversione del principio di non colpevolezza. Ma si capisce questa involuzione e cominciamo a comprendere meglio cosa voglia dire essere «avvocato del popolo». Alla giustizia servono il contraddittorio con la difesa, le perizie, gli accertamenti, le testimonianze: insomma, anni. Viceversa la ricerca del nemico (peraltro Autostrade è il nemico ideale, date le circostanze per lei negative), del capro espiatorio non può attendere: la risposta a tempo di social deve essere immediata.

E qui c’è la frattura con il mondo dell’impresa, con la cultura industriale. Il punto di partenza è stato il decreto dignità, che nell’impatto su tutto il mondo produttivo è parso ingeneroso e al limite dell’offesa. Ieri il presidente di Confindustria, Boccia, con una lettera al «Sole 24 Ore», ha detto che «occorre essere né giustizialisti né giustificazionisti» e che, nell’accertare le responsabilità e nel punire i responsabili, si deve «rispettare le leggi e non creare confusione di ruoli». L’accento è sulla «confusione di ruoli», il tono è costruttivo, ma conferma la distanza fra l’universo della fabbrica e il governo giallo-verde. Un cambio di fase da valutare seriamente per una Confindustria storicamente filogovernativa e per una destra ibrida in vena di neostatalismo, che sembra tornare indietro sulle ali della nostalgia di un tempo idealizzato.

Con agghiacciante tempismo, la sciagura di Genova tocca il nervo scoperto delle grandi infrastrutture che divide Lega e grillini, indicandone i limiti nel metodo e nella sostanza. Una cultura che vive di un presente rancoroso e che ha paura della modernità e del futuro. Ma forse c’è qualcosa di più, che riguarda il degrado del costume politico, benché risulti impopolare sottolinearlo visto l’alto gradimento del governo: «La Costituzione – ha detto il presidente emerito della Corte costituzionale, Giovanni Maria Flick – è un manuale di sopravvivenza, bisogna applicarlo e bisogna che tutti abbassino i toni: maggioranza e anche opposizione, per uscire da una campagna elettorale permanente, altrimenti la “pacchia finisce”, ma per tutti».

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